POLONIA: Il centenario dell’indipendenza e il valore dell’11 novembre (parte seconda)

Seconda parte del nostro lungo approfondimento sul centenario dell’indipendenza polacca. La prima la trovate qui.

Quale spazio per la Polonia?

Una volta cominciati i lavori a Versailles, a gennaio del 1919, lo Stato polacco era già nato ma le sue frontiere dovevano essere ancora definite dato che nessuno aveva una chiara idea di quanto spazio la Polonia dovesse e potesse occupare in Europa e il principio di autodeterminazione accorreva in aiuto soltanto entro certi limiti. Così, desiderosi di seguire un principio ordinatore di stampo etnico ma al contempo in difficoltà nell’applicarlo, i leader della Conferenza decisero per l’istituzione di un organismo ad hoc, la Commissione per gli Affari Polacchi, col compito di esaminare le rivendicazioni polacche frutto non solo di considerazioni etniche ma anche economiche e strategiche[1].

A tracciare i confini a ovest furono i plebisciti in due provincie della Prussia Orientale (Allestein/Olsztyn e Kwidzyn/Marienwerder, il primo si risolse a favore della Germania e il secondo della Polonia) e l’Accordo sull’Alta Slesia del 1922 che ne sancì la spartizione (la provincia di Katowice andò alla Polonia e quella di Oppeln, oggi Opole, alla Germania per porre fine agli scontri in loco tra tedeschi e polacchi).

Menzione a parte merita lo sbocco sul Baltico, un territorio tutt’altro che omogeneo dato che la Prussia Occidentale, per la sua posizione strategica intorno alla foce della Vistola, fu terreno per secoli di scontro tra tedeschi e slavi[2]. Infatti, al fine di assicurare gli interessi economici polacchi evitando l’inconveniente di annettere una città prevalentemente tedesca, Danzica venne proclamata città libera sotto la protezione della Società delle Nazioni.

Il grande dilemma del confine orientale

La vicenda polacca, però, andava ancora risolta a est. Se la questione delle frontiere tra Germania e Polonia trovava una disposizione generale agli art. 27 e 88 del Trattato di Versailles del 1919 (anche se, come visto, i confini di zone controverse furono tracciati successivamente), i confini orientali della Polonia non furono discussi alla Conferenza di Pace né il Trattato di Saint-Germain con l’Austria includeva disposizioni sulla Galizia, la cui parte orientale era contesa ora anche dalla Russia che su quei territori non aveva mai dominato.

Questo silenzio internazionale lasciò la Polonia a combattere per i suoi confini orientali con l’Ucraina, la Russia, e la Lituania. In Galizia i movimenti nazionali polacchi e ucraini, avendo beneficiato delle politiche liberali austro-ungariche, erano più forti e meglio organizzati. Come il tema dell’identità nazionale aveva ridestato gli animi dei primi, allo stesso modo scosse l’animo dei secondi che vedevano nella retorica di Wilson una possibilità d’indipendenza per l’Ucraina.

Allo stesso modo, Piłsudski, approfittando della guerra civile in Russia, decise di estendere il conflitto su tutto il confine orientale per spingere i confini russi quando più possibile verso est e legare le sorti degli ucraini, lituani, bielorussi con quelle della Repubblica polacca. A questo scopo, nell’aprile del ’19, entrò a Wilno/Vilnius, occupata dai bolscevichi all’inizio di quello stesso anno, in modo da ripristinare quel legame storico che aveva unito i due paesi per lungo tempo approfittando della guerra civile dilagante in Russia. L’esito della questione di Vilnius (ufficialmente riconosciuto dalla Conferenza degli Ambasciatori il 15 marzo 1923) rappresentava «una tragedia personale e un fallimento politico»[3] per quell’uomo nato e cresciuto in Lituania il cui sogno di una vita era tenere assieme i due popoli.

Nella terribile estate del 1920, quando la vincente controffensiva bolscevica sembrava mettere in pericolo l’esistenza stessa della Polonia, si tentò di risolvere la questione orientale sui tavoli diplomatici. Fu in quel momento, infatti, che nacque la famosa linea Curzon proposta dall’omonimo ministro degli Esteri inglese come possibile armistizio tra la Polonia ad ovest e la Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa ad est. Entrambe le versioni del piano, la linea “A” che lasciava Lwów/L’viv sul lato orientale del confine, e la “B” che la incorporava alla Polonia, furono rifiutate poiché sfavorevoli alle parti in base alle situazioni militari in essere, che poi volsero a favore della Polonia. La linea, che seguiva pressappoco il confine che era stato stabilito tra la Prussia e la Russia nel 1797, dopo la terza spartizione della Polonia, fu utilizzata più tardi per separare nel ’39 le zone di occupazione tedesca e sovietica e, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, per stabilire il confine polacco-sovietico nelle trattative con gli Alleati.

Cessati tutti gli scontri e le controversie territoriali, la Conferenza degli ambasciatori nel 1923 riconobbe ufficialmente i confini orientali della Polonia chiudendo definitivamente qualsiasi disputa.

La Polonia risorta, un breve identikit

La Polonia del primo dopo-guerra aspirò, quindi, alla restaurazione del territorio eterogeneo della Confederazione polacco-lituana, ma con un approccio nazionalista per sua stessa natura bisognoso di omogeneità culturale, volendo inglobare più identità nazionali e non certo con l’obiettivo di sperimentare forme di convivenza multietnica. La Polonia tra le due guerre divenne purtroppo esempio di quell’imperialismo che l’aveva divisa e che ora dissetava la sua sete espansionista sulle orme di una convinta grandeur che di fatto non esisteva. La Seconda Repubblica di Polonia era uno stato appena nato eppure già diviso non solo lungo linee etniche, linguistiche e religiose ma anche amministrative ed economiche frutto di una spartizione durata più di un secolo. Bisognava ricucire tre segmenti che durante l’epoca delle spartizioni avevano imboccato tre diversi percorsi politici ed economici.

I polacchi della Prussia avevano raggiunto un alto livello di sviluppo economico nel secolo precedente grazie ad una fiorente agricoltura e industria di trasformazione in Poznania e Pomerania e all’industria pesante e mineraria in Slesia. Socialmente appartenenti alla classe borghese – capitalista, manifestavano una forte identità regionale mista ad un risentimento verso i propri compatrioti orientali e meridionali, «parassiti economici»[4], e non, come loro, « portatori di quelle positive e “prussiane” virtù come operosità, efficienza, perseveranza e puntualità»[5].

Al di là delle presunte inclinazioni caratteriali, è vero che le altre aree della Polonia godevano di uno sviluppo sicuramente inferiore. La Galizia, ex regione austriaca, benché politicamente, amministrativamente, e culturalmente privilegiata, era economicamente povera e demograficamente sovrappopolata per il suo livello di sviluppo agricolo[6].

I territori dell’ex dominio russo erano poi divisi in due parti: il Regno del Congresso creato a Vienna nel 1815 e in unione politica con l’Impero zarista, semiautonomo, con un’industria seconda solo alla Slesia, e il kresy, le aree del confine orientale, agricole ed arretrate, in passato parte integrante della Russia e ora guidate da un’élite aristocratica polacca che «esercitava “l’amministrazione” economica e culturale su una classe contadina bielorussa e ucraina ancora socialmente ed etnicamente “immatura”»[7].  Per di più, il perimetro territoriale della Polonia le conferiva una fisionomia eterogenea per cui un terzo della popolazione non era polacco.

Se è vero che esse erano concentrate maggiormente in alcuni aree, è altrettanto vero che in quelle stesse zone a maggioranza ucraina o bielorussa, ad esempio, vi erano delle “macchie” polacche. Così come vi erano delle minoranze che, sparpagliate in tutto il paese, non costituivano una maggioranza significativa in alcun luogo. Gli ucraini, per la maggior parte contadini, risultavano in maggioranza in Galizia e in misura minore in Volinia ma non lo erano nelle città di quelle stesse regioni che erano invece a preponderanza polacca. I tedeschi, naturalmente concentrati ad ovest, risultavano “dispersi” dal momento che non erano in maggioranza in nessuno distretto (lo erano solo in una città, Bielsko-Biała, Bielitz in tedesco) e avevano dei nuclei a Łodz e Byałystok, ad esempio. Per non parlare della comunità ebraica che sarà oggetto di un innegabile antisemitismo. La depressione economica successiva alla crisi del ’29 e le turbolenze interne, politiche ed etniche assieme, frutto di un autoritarismo intollerante e aggressivo, consumarono lentamente lo stato polacco dall’interno e la sua agonia lenta e inesorabile ebbe il colpo di grazia per mano dei suoi nemici storici che si ritrovarono ad occupare un paese militarmente e psicologicamente impreparato a vent’anni dalla sua rinascita.

 

Il presente è il secondo e ultimo articolo di un approfondimento dedicato al centenario dell’indipendenza polacca. La prima parte puoi leggerla qui.

 

[1] P. Wadycz, The Polish Question, in M.F. Boemeke, G.D. Feldman, R. Chickering, E. Gläser, The Treaty of Versailles: A reassessment after 75 years, Cambridge, Cambridge University Press, Washington DC, German Historical Institute, 1998, p. 325

[2] R.H. Lord, Poland, in E. M. House and C. Seymour, edited by ,What really happened at Paris : the story of the peace conference, 1918-1919, Kessinger publishing, New York, 1921, p. 75

[3] J. Karski, The Great Powers & Poland, 1919-1945: from Versailles to Yalta, Lanham, University Press of America, 1985, p. 74

[4] J. Rothschild, East Central Europe Between the Two World Wars, Seattle, Washington University Press, 1974, p.  30

[5] Ibidem

[6] Ibidem

[7] Ibidem

 

Fonti cartine: wlaczpolske.pl; wikipedia;

Foto: Polish Cultural Institute

Chi è Paola Di Marzo

Nata nel 1989 in Sicilia, ha conseguito la Laurea Magistrale in Scienze Internazionali e Diplomatiche presso la Facoltà "R. Ruffilli" di Forlì. Si è appassionata alla Polonia dopo un soggiorno di studio a Varsavia ma guarda con interesse all'intera area del Visegrád. Per East Journal scrive di argomenti polacchi.

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