C’è una storia che forse non abbiamo mai capito, ed è la storia delle Repubbliche Popolari, nate nel secondo dopoguerra e crollate insieme al muro di Berlino nel 1989. È la storia di Budapest ‘56, di Praga ’68 e di Danzica ’80. Furono le rivolte esplose in queste città a far vacillare l’Unione Sovietica e a gettare le basi per lo sviluppo di una controcultura democratica nell’Europa dell’Est. Eppure l’Occidente, e in particolar modo l’Occidente comunista, non fu quasi mai in grado di cogliere la natura democratica e popolare di quelle rivolte.
Nell’ottobre del ’56, durante il primo significativo terremoto politico nell’area di influenza dell’URSS, il Partito Comunista Italiano (PCI), allora il più grande partito comunista dell’Occidente, si mostrò fedele alla linea proposta dall’Unione Sovietica, che bollava i manifestanti di Budapest come controrivoluzionari e fascisti al soldo del capitalismo.
Eppure, tra le fila del comunismo nostrano ci fu qualcuno che in quella rivolta vide un’opportunità di riscatto per il movimento marxista internazionale dopo lo shock del rapporto segreto di Kruscev. Giuseppe Di Vittorio, leader della CGIL, membro del PCI e presidente della Federazione Sindacale Mondiale (FSM), supportato da intellettuali come Italo Calvino e da gruppi di giovani comunisti, sfidò apertamente le posizioni filo-sovietiche espresse dal partito guidato da Togliatti, allora fortemente influenzato dal governo di Mosca.
La rivolta ungherese
L’ondata riformista prese definitivamente il sopravvento in terra magiara tra il marzo e l’ottobre del 1956, grazie alla divulgazione del rapporto segreto e all’esempio della vicinia Polonia, dove il riformista Gomulka venne eletto segretario del Partito Operaio Unificato Polacco (POUP) il 21 ottobre. L’evento galvanizzò i riformisti ungheresi che, insieme a gruppi di intellettuali e studenti, diedero vita a quelle manifestazioni di piazza che portarono alla rielezione di Imre Nagy.
Ma il partito si era mosso tardivamente: il riformista ungherese rimase “schiacciato” tra chi, come lui, immaginava un cambiamento graduale del sistema, e chi, come i giovani ribelli e gli intellettuali, chiedeva da subito cambiamenti radicali come l’uscita dal Patto di Varsavia o le libere elezioni. I tragici avvenimenti del 25 ottobre, dove davanti al parlamento di Budapest vennero uccisi più di 60 manifestanti, e l’escalation di violenza che ne seguì, convinse infine il primo ministro a schierarsi con quelli che venivano definiti dalle autorità sovietiche come ribelli e controrivoluzionari. Il 30 ottobre venne annunciata dallo stesso Nagy via radio la fine del sistema mono-partitico e il giorno successivo Il Partito dei Lavoratori Ungheresi (PLU) venne sciolto. Infine, il 1 novembre, il leader riformista prese la decisione più drastica: l’Ungheria uscì dal Patto di Varsavia dichiarandosi un paese neutrale. Fu questa la scelta che più delle altre portò alla repressione della rivolta il 4 novembre 1956.
Un PCI fedele alla linea sovietica
Il 24 ottobre 1956 l’Unità pubblicava un articolo dove i termini “controrivoluzione” e “controrivoluzionari” comparivano ben 9 volte. I rivoltosi venivano descritti come giovani fascisti appartenenti all’aristocrazia e alla borghesia, criminali, disperati appartenenti al sottoproletariato e malati mentali. I sanguinosi eventi avvenuti davanti al parlamento magiaro smorzarono solo parzialmente questa interpretazione propagandistica proposta dal PCI. Proprio il 25 ottobre, il direttore del quotidiano di partito, Pietro Ingrao, pubblicava un articolo dove ammetteva che tra i ribelli ci fossero anche operai e intellettuali. Questa rivelazione, per quanto dolorosa, non intaccava però il giudizio di fondo elaborato dai quadri dirigenziali del PCI. Se in un primo momento i rivoltosi venivano descritti esclusivamente come rampolli di una borghesia reazionaria o come affetti da malattie psichiatriche, ora nella retorica di partito veniva inclusa anche una classe operaia “confusa” e “spaesata”, attratta con l’inganno nelle contestazioni contro il regime (Guerra; Trentin, 1997).
L’articolo di Ingrao incarnava impeccabilmente la logica di fondo che si muoveva dietro le argomentazioni del PCI: pur individuando la crepa tra la classe dirigente comunista ungherese e il proletariato magiaro, i comunisti italiani si rifiutavano di riconoscere la natura popolare e democratica della rivolta di Budapest. Per i quadri del partito guidato da Togliatti, ogni qualvolta si manifestava lo spettro di una controrivoluzione, la scelta rimaneva se schierarsi da una parte o dall’altra della barricata. Le categorie prese in considerazione rimanevano sempre due: controrivoluzionari e rivoluzionari, un terzo campo non veniva concepito.
La narrazione alternativa della CGIL
In Italia, a proporre una narrazione alternativa a quella dell’Unione Sovietica e del PCI furono gruppi di intellettuali, sindacalisti e studenti, tutti orbitanti intorno all’universo marxista. Tra queste personalità spiccano alcuni nomi ben noti nel panorama del comunismo italiano come Achille Occhetto, all’epoca giovane membro del partito, l’intellettuale Italo Calvino e il segretario della CGIL Giuseppe Di Vittorio. Quest’ultimo sfruttò tutto il suo peso politico per aprire un dialogo con il PCI, che rispose con l’isolamento del sindacalista all’interno del partito e con una sostanziale conferma della presa di posizione filo-sovietica.
Sorretto dall’ala socialista della CGIL e da una consistente parte degli intellettuali comunisti italiani dell’epoca, Di Vittorio approvò un documento redatto in CGIL il 26 ottobre del 1956, in cui veniva espressa senza mezzi termini una severa critica alla decisione sovietica di intervenire militarmente a Budapest. Lo sdegno del sindacato italiano si materializzava in una “condanna storica e definitiva” dei “metodi antidemocratici di governo e direzione politica” applicati dall’Urss. L’utilizzo di truppe straniere, secondo la CGIL, ledeva il principio di non intervento di uno stato negli affari interni di un altro stato. La visione proposta dal PCI di un’Armata Rossa posta a difesa del proletariato internazionale, veniva sostituita nella CGIL da una lucida analisi della realtà geopolitica dell’epoca. Inviando carrarmati a Budapest, l’Unione Sovietica non difendeva gli ideali della rivoluzione d’ottobre, ma esercitava la sua forza militare di superpotenza su un paese a lei subordinato. Inoltre, i proclami e le rivendicazioni dei ribelli ungheresi erano, secondo Di Vittorio, di carattere sociale, rivendicavano libertà e maggiore indipendenza, non chiedevano il ritorno del capitalismo o del regime fascista di Horthy.
Nei giorni successivi alla pubblicazione del documento della CGIL sulla stampa nazionale, molte federazioni locali del PCI assunsero posizioni convergenti con il sindacato e con Di Vittorio. Manifestazioni di comunisti a supporto dei ribelli ungheresi presero vita in molte città come Roma, Firenze, Palermo, Pisa, Mantova, Brescia, Cremona e Pavia (Guerra; Trentin, 1997). Un gruppo di noti accademici, insieme a studenti e intellettuali comunisti inviò una lettera, passata poi alla storia come il “Manifesto dei 101“, al Comitato Centrale del PCI, chiedendo la definitiva condanna dello stalinismo, un rinnovamento interno al partito e un allineamento con la CGIL riguardo l’interpretazione dei fatti ungheresi.
L’insegnamento di Di Vittorio
Di Vittorio riuscì a creare un ponte ideologico tra la CGIL e gli intellettuali comunisti, ponendo le basi per il progressivo distaccamento del sindacato dalle politiche sovietiche e per la formazione in Italia di un “terzo campo” comunista, libero dalla logica dualista della Guerra Fredda. Solo la seconda invasione sovietica, quella del 4 Novembre 1956, smorzò gli entusiasmi del movimento di “dissidenti”. Alcuni di loro, non vedendo più le condizioni per un dialogo con il partito, preferirono conformarsi alla sua linea. Lo stesso Di Vittorio, a seguito della definitiva soppressione della rivolta, affermò l’importanza, per il bene di tutto il movimento comunista, di rimanere uniti e di non esasperare le differenze di vedute in un momento così tragico (Ajello, 1979).
Malgrado questa decisione, che di fatto consegnò la vittoria ai quadri dirigenziali del PCI, a Di Vittorio e agli intellettuali comunisti che si schierarono con lui in quella battaglia va riconosciuto il merito di aver guardato a Budapest senza preconcetti ideologici, senza lasciarsi “costringere” dalle forzature e dalle pressioni del PCI e dell’Unione Sovietica. Il segretario della CGIL ebbe il coraggio di cambiare prospettiva, si rifiutò di percorrere strade sicure e di abbracciare tesi preconfezionate e semplicistiche. Questo gli permise di conoscere più a fondo la natura del movimento di contestazione ungherese. Di Vittorio guardò a Budapest con ammirazione e speranza. Intravide nelle lotte ungheresi un’opportunità e non una minaccia. Riconobbe, in un momento così drammatico per il mondo comunista, la possibilità di costruire un socialismo diverso, un socialismo dal volto umano.
Si, i fatti sono questi ma anche i risultati! Liberismo senza regole e mercati globali. Alla faccia di Marx. I cattocomusti, fattisi le loro dimore dorate e consolidatisi le rendite e i vitalizi, giocano, senza più l’alibi del fascismo, con la nuova genterella alle prese con lo spettro della povertà. Bella roba a valere in tutta Europa.