“Certe volte le persone pagano con la vita il fatto di dire ad alta voce ciò che pensano. Infatti, una persona può perfino essere uccisa semplicemente per avermi dato una informazione. Non sono la sola ad essere in pericolo e ho esempi che lo possono provare”. Queste le parole di Anna Politkovskaya un anno prima della sua morte, nel 2005. Si trovava a Vienna, a una conferenza di Reporter senza Frontiere sulla libertà di stampa, e sapeva quanto quella libertà potesse costare anche se forse non immaginava di dover pagare con la vita. Il 7 ottobre 2006 il mondo assisterà al suo omicidio, un omicidio rituale, piccolo regalo, a quanto pare, in onore del cinquantaquattresimo compleanno di Vladimir Putin, suo avversario e acerrimo nemico nella lotta per l’affermazione della libertà d’espressione.
Prima che venisse uccisa sulle scale del palazzo in cui abitava soltanto chi si interessava da vicino alle guerre cecene conosceva il nome di questa donna decisa, che con i suoi reportage aveva rivelato al mondo le responsabilità della classe politica russa nel conflitto armato delle zone del Caucaso.
Anna era una donna forte, determinata. Sapeva di essere in pericolo, ma nonostante tutto non si è mai fermata, anzi, ha continuato a lottare per i diritti umani fino alla fine. Ci teneva al suo lavoro, ma soprattutto teneva molto al rispetto della giustizia. La sua penna non si è fatta intimorire dalle numerose minacce di morte ricevute nel corso degli anni. Non se ne è rimasta zitta quando in Cecenia, nel 2001, è stata catturata da alcuni militari russi mentre indagava sul conflitto, o quando hanno tentato di avvelenarla nel settembre del 2004 mentre si recava in Ossezia del Nord per seguire le vicende dell’assedio alla scuola di Beslan.
“Sono assolutamente convinta che il rischio sia parte del mio lavoro; il lavoro di una giornalista russa, e non posso fermarmi perché è il mio dovere.”
Anna apparteneva a quella parte di intelligencija sovietica che, nel corso del XX secolo, è stata pronta a sacrificarsi nella lotta contro la tirannia, producendo grandi scrittori e dissidenti, come Alexander Solzhenicyn, Varlam Chalamov, Nadezhda Mandelstam, Josef Brodsky e molti altri. Il suo amore per la verità e la giustizia si è tramutato in inchieste e storie che raccontano la guerra in Cecenia, la strage di Beslan, la vicenda del Teatro Dubrovka in maniera schietta e chiara, con l’aiuto di testimonianze vive e crude.
Anna aveva paura, negli ultimi anni della sua vita si sentiva sola, ma non ha mai smesso di lottare e ha continuato a scrivere per la Novaya Gazeta fino alla sua morte. I suoi colleghi e i suoi cari la ricordano soprattutto per il suo valore umano, che andava oltre la sua passione per il giornalismo. Il suo stile diretto, franco e pungente ha denunciato atrocità impensabili e la sua voce è diventata un’icona in occidente. Oggi, però, questa voce sembra essersi spenta, ammutolita di fronte ai nuovi orrori del conflitto ucraino, dimenticata proprio dai suoi stessi colleghi che, in Europa, sono pronti a perdonare al Cremlino ogni abuso in nome della realpolitik. Pochi, oggi, la ricordano come dovrebbero.
Anna non è stata l’unica giornalista ad aver sacrificato la sua vita per la causa di una Russia più giusta e responsabile. Non è stata la prima, e non sarà l’ultima. Il suo nome rischia di confondersi in una lista che si allunga, la lista delle voci scomode messe a tacere con la violenza. Ma almeno oggi non dimentichiamola. A lei va oggi il nostro pensiero, affinché coltivare memoria significhi seminare futuro.