Ci sono parole in cui si racchiude un tesoro, forziere di orizzonti in cui si trova un’eredità inesauribile, ricchezza da spendere e dissipare, perché è la ricchezza della speranza. Questo è quanto ci hanno lasciato due uomini, tra loro diversi, che forse mai si sono conosciuti: Luca Rastello e Alexander Langer. Se ne sono andati entrambi, in modi diversi, in questi primi giorni di luglio, ed entrambi sono costante ispirazione e modello per molti di noi, e per questo vogliamo ricordarli insieme. Con la loro fragile tenacia hanno spinto lo sguardo oltre gli steccati e i muri che gli uomini e la storia hanno costruito, cercando di costruire ponti, di alleviare la pena, di descrivere e individuare una via d’uscita, un’alternativa. Le guerre balcaniche sono state il loro crocevia.
Luca Rastello è stato uno dei migliori giornalisti italiani, aveva intelligenza, onestà, e la tenacia di andare in fondo alle cose ficcandosi a testa in giù dentro i problemi per comprenderli e farli comprendere. Non era uno di quelli che si vedono in televisione, non aveva verità da rivelare né facili soluzioni da proporre. Il suo La guerra in casa è stata per noi una lettura propedeutica allo studio dei Balcani contribuendo a darci quell’alfabeto emotivo con cui oggi possiamo tradurre altri conflitti, altre tragedie umane, e che opera dietro ogni parola che scriviamo, tale da togliere al linguaggio e al pensiero quelle freddezze analitiche cui altrimenti si sarebbe facilmente tentati. Senza quel libro, forse oggi noi non saremmo qui a scrivere e raccontare. Il nostro giornale è dedicato alla sua memoria. Una dedica, e quindi una appartenenza, che ci impegna quotidianamente.
A muoverlo era l’ostinata curiosità verso il mondo e le sue epifanie, anche le più terribili, che penetrava senza mai giudicarle. I suoi libri – da Io sono il mercato, sui segreti del narcotraffico, a Binario morto, sulla vanità dell’alta velocità – sono tutti segnati dalla sua grande capacità di portarti dentro le cose, di poterle vivere con lui al punto che, quasi quasi, alla fine ti sembrava di conoscerlo anche un po’, Luca. Il legame intellettuale con la sua opera è, giocoforza, anche un legame in certa misura “affettivo”. Negli anni della malattia, ha continuato nel suo lavoro, con il sorriso, vivendo e criticando la realtà, figlio di una Torino che obbliga, piaccia o no, al rigore e all’onestà intellettuale. Era una voce libera e scomoda, difficile da digerire, terribilmente coerente – si legga il suo ultimo libro, I buoni – ma era anche, nella crudezza della denuncia, profondamente rispettoso del dolore e le tragedie degli altri. Perché c’è sempre una persona dietro a una storia, ed è la persona che viene prima. Quando se ne è andato, il 6 luglio del 2015, non se ne è andato davvero. Per sua stessa ammissione ha detto che di là, lui, non ci avrebbe messo piede. Sarebbe rimasto dietro la curva, appena poco avanti, celato allo sguardo ma presente lungo questa strada che dobbiamo percorrere, fermamente persuaso che “ogni volta che un uomo sorride, ma più ancora quando ride, aggiunge un granello a questo breve frammento che è la nostra vita”.
Il sorriso, timido ma sereno, di Alexander Langer è già una dichiarazione politica. Morto il 3 luglio del 1995, quando eravamo bambini e alcuni di noi nemmeno erano al mondo, ci ha dato una lezione politica e morale così potente che oggi tutti, anche senza saperlo, siamo suoi allievi. Il suo messaggio lo ha superato, si è amplificato, approfondito, facendosi coscienza condivisa per molti, e sicuramente per noi che qui scriviamo. Langer ci ha insegnato la vanità degli steccati etnici, l’impossibilità di una società rinchiusa in piccole patrie, la miseria che nasce dalla separazione invocata dai nazionalismi grandi e piccoli della nostra epoca. La sua coscienza sociale e politica, è la nostra, è di chi non vuole arrendersi ad accettare la frantumazione. Essere “più lenti, più profondi, più dolci” è un insegnamento di cui solo ora, a più di vent’anni dalla sua morte, comprendiamo il valore e la portata.
Langer, cresciuto nell’eccezionalità sudtirolese, aveva capito prima di tutti le storture dell’epoca in cui viviamo, dedicando la sua vita a indicare strade alternative, costruendo ponti mentre intorno a lui si costruivano muri. Il ponte, metafora della sua stessa esistenza, è per noi obiettivo di lavoro, motivo di impegno, ragione del nostro scrivere. E i muri continuano a essere eretti anche oggi nel cuore di quell’Europa in cui Langer ha creduto e che ha messo con le spalle al muro, inchiodandola alle sue responsabilità: “L’Europa muore o nasce a Sarajevo“, aveva detto ai potenti riuniti a Cannes pochi mesi prima di togliersi la vita su un ramo di albicocco. “Non siate tristi, continuate in ciò che è giusto” sono state le sue ultime parole.
Il ricordo di Luca Rastello e Alexander Langer è, per noi, più che una memoria da conservare. E’ la ragione del nostro umile lavoro, l’orizzonte ideale e morale verso cui ci rivolgiamo, è presente e viva nel nostro limitato agire. Camminiamo lungo il solco che hanno tracciato, li seguiamo per la strada che hanno percorso e nella direzione che ci hanno indicato. E quando ci sentiamo soli andiamo a cercare quel granello di speranza che ci hanno lasciato, quel frutto di albicocca finalmente maturo, e sappiamo che loro ci sono. E non li lasceremo andare.