BALCANI: La Dichiarazione sulla lingua comune. Il ritorno del serbo-croato?

Da BELGRADO – Giovedì scorso, a Sarajevo, è stata ufficialmente presentata la “Dichiarazione sulla lingua comune”, un testo firmato da oltre 200 tra linguisti, scrittori, accademici e attivisti provenienti da Bosnia-Erzegovina, Croazia, Montenegro e Serbia. Si tratta del risultato finale di un progetto regionale, dal nome “Jezici i nacionalizam” (le lingue e il nazionalismo).

I firmatari del progetto dichiarano: “alla domanda se in Bosnia-Erzegovina, Montenegro, Croazia e Serbia si parli una lingua comune, la risposta è affermativa. Si tratta di uno standard comune, di tipo policentrico.” La dichiarazione prosegue spiegando che il fatto che questa lingua abbia nomi diversi in base al paese in cui viene parlata, non significa che si tratti di quattro lingue diverse.

Al contrario, l’erede di quello che ai tempi della Jugoslavia si chiamava serbo-croato o croato-serbo è un caso simile alla lingua tedesca, francese o araba, che vengono parlate, con variazioni dialettali locali in più paesi, mantenendo però lo stesso nome.
L’obiettivo centrale della Dichiarazione è la rinuncia ad una divisione linguistica che si pone a fondamento di divisioni di carattere politico, sociale e culturale. Questa iniziativa prende dunque di mira il nazionalismo, che ha portato alla frammentazione non solo della cornice statale unica jugoslava ma anche della lingua che in essa si parlava.

L’accusa è quindi contro una concezione di lingua che non serva alla comunicazione, ma piuttosto alle singole identificazioni nazionali, così come al riconoscimento delle differenze.
Questa divisione ha infatti avuto come conseguenze la segregazione linguistica in seno alle istituzioni pubbliche e nel sistema dell’educazione, se si prende ad esempio il fenomeno delle “due scuole sotto lo stesso tetto” che da anni obbliga migliaia di bambini bosniaci a sottostare ad un sistema che li suddivide in base all’appartenenza nazionale.
Inoltre, viene sottolineata l‘inutilità di traduzioni ufficiali tra le quattro lingue che, oltre ad essere molto costose, hanno come scopo quello dell’ingigantire le sottili differenze presenti tra il bosniaco, il croato, il montenegrino e il serbo.

Le quattro varianti linguistiche vengono quindi riconosciute come uguali, così come è riconosciuto il diritto di ogni cittadino di questi quattro paesi a chiamare come meglio crede la lingua che parla.
La questione del nome viene dunque lasciata aperta, dal momento che la Dichiarazione non menziona la lingua serbo-croata, né appunto prova a proporre un nome nuovo, nella consapevolezza che ciò potrebbe portare a complicazioni di carattere politico.

Andando indietro nel tempo, la lingua comune per i popoli slavi del sud nacque in modo analogo a questa Dichiarazione. Fu infatti opera di linguisti provenienti dai diversi paesi della regione, in primis Vuk Stefanović Karadžić (ovvero il riformatore della lingua serba) e il croato Ljudevit Gaj che nel 1850, a Vienna, giunsero ad un Accordo che sanciva la nascita della lingua serbo-croata. Gli intellettuali serbi, croati e sloveni, inoltre, vedevano nelle proprie affinità linguistiche la base per un più grande bisogno di emancipazione nazionale.
Non è un caso che fu scelta la variante “jekava” (oggi parlata in Croazia, Montenegro e Bosnia-Erzegovina) come base della lingua comune, in quanto maggiormente diffusa nelle regioni della ex Jugoslavia.

Successivamente, in epoca jugoslava, seguiranno altre due dichiarazioni, la prima nel 1954 a Novi Sad, che sancì che serbi, croati e montenegrini parlano la stessa lingua, portando alla nascita del dizionario serbocroato; mentre nel 1967, gli intellettuali di “Matica Hrvatska” rivendicheranno la posizione autonoma della lingua croata, ora troppo contaminata da elementi serbi.

La storia dei popoli una volta facenti parte la Jugoslavia è quindi in parte scandita da dichiarazioni e rivendicazioni di carattere culturale. Il risultato è un continuo altalenare tra unione e divisione, dal momento che ogni questione linguistica porta ad opposti schieramenti politici.

Dal canto suo, infine, quest’ultima Dichiarazione non avrà, per ora, alcun valore a livello istituzionale e le divisioni nazionali così come le inutili traduzioni continueranno a propagandare l’idea di divisioni “necessarie”, ma essa rappresenta un grande passo avanti per l’intera regione: una sfida al monolito nazionalista e un invito a rifiutarne la dannosa propaganda.

Chi è Giorgio Fruscione

Giorgio Fruscione è Research Fellow e publications editor presso ISPI. Ha collaborato con EastWest, Balkan Insight, Il Venerdì di Repubblica, Domani, il Tascabile occupandosi di Balcani, dove ha vissuto per anni lavorando come giornalista freelance. È tra gli autori di “Capire i Balcani occidentali” (Bottega Errante Editore, 2021) e ha firmato due studi, “Pandemic in the Balkans” e “The Balkans. Old, new instabilities”, pubblicati per ISPI. È presidente dell’Associazione Most-East Journal.

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