Per alcuni versi è perfino troppo facile ricordare oggi Predrag Matvejevic. La sua notorietà, chiamiamola così, personale e letteraria rendono veloce il suo ricordo, la sua intensa biografia. Tanto da rischiare di scivolare in una obbligata ma gratuita e dolciastra agiografia. Invece conviene qui ricordare Predrag – la sua vita ed il suo impegno intellettuale – come l’ultimo jugoslavo.
Nato a Mostar da padre russo e madre croato-bosniaca nel 1932, all’epoca del breve e tormentato Regno di Jugoslavia dei Karađorđević, credette sempre nella “jugoslavità” (jugoslavenstvo) come idea romanticamente generosa di convivenza delle diversità e di abbattimento delle frontiere: mentali, culturali, oltre che fisiche. Ma il suo pensiero, pure ai tempi della Jugoslavia di Tito, dovette scontrarsi sia con i montanti nazionalismi (di cui fu segno ad esempio la “primavera croata” del 1971), sia con la rigidità ottusa della Lega dei comunisti, nei cui ranghi cresceva quella nova klasa subito denunciata da Gilas. Impossibile non essere “contro”: con una serie di “lettere aperte” (in cui osò perfino chiedere a Tito di dimettersi per il bene del paese) difese i dissidenti, sovietici o jugoslavi che fossero. Intervenne anche a favore di Tudjman quando venne incarcerato due anni per attività sovversive legate alla “primavera croata” credendolo malato di cuore. Scriverà poi di lui in I signori della guerra: “Non potevo neppure immaginare che, a onta dei gravi danni cardiaci subiti, un giorno questo signore avrebbe giocato a tennis con assi di livello mondiale, sforzandosi di apparire alla loro altezza. E neppure che la sua équipe medica avrebbe stabilito le perfette condizioni del suo cuore. Ma questa è la sua indole.”
Nel 1968 gli fu proibito di parlare agli studenti a Zagabria perché coinvolto nel sogno dell’umanesimo marxista di Praxis dei suoi annuali seminari curzolani. Espulso dal partito, divenne egli stesso un dissidente. Nell’89, quando ormai la Jugoslavia socialista stava franando nel caos nazionalistico, partecipò alla breve avventura dell’Associazione per l’iniziativa democratica jugoslava (UJDI), in cui accanto alla democratizzazione del sistema si voleva mantenere il quadro jugoslavo.
Ma ormai era tardi: non si arrivò né al primo né al secondo obiettivo. I “talebani” nazionalisti, come li definì, produssero invece “democrature” e frantumarono violentemente la Jugoslavia. La stessa violenza (tre rivoltellate contro la sua cassetta delle lettere a Zagabria) lo obbligò ad andarsene, “tra esilio e asilo”, a Parigi e a Roma. Nel 1993 aveva scritto a Milosevic e Tudjman consigliando ad entrambi il suicidio per il bene dei loro popoli. Ritornato finalmente a Zagabria dopo la sbornia nazionalista (dove “il nazionalismo abbaia ma non ha più i denti”), non smise mai di credere nell’umanesimo di un mondo aperto: “Sono nato in un paese senza frontiere e poi le frontiere si sono costruite”, disse.
E’ morto in un tempo amaro e cinico: non solo le frontiere, ma i muri oggi sono ovunque apprezzati ed invocati. “Straniero, espulso, esule, profugo, rifugiato, fuggiasco, sfollato, deportato, esodato, espatriato, fuoriuscito, esiliato, respinto. Ho tenuto una lezione alla Sorbona sul fatto che la lingua italiana è quella con la più ampia gamma di termini per parlare dei migranti. E invece, ora si sente solo insistere su clandestini e irregolari. Ma cosa significa clandestinità in tempo di pace? Sono cose queste che mi hanno profondamente sorpreso dell’Italia”. Questo diceva Predrag qualche anno fa: in poche righe, forse il suo migliore testamento spirituale. Addio, ultimo jugoslavo.