Due studiosi bosniaci hanno affrontato il tema del jihadismo bosniaco da due prospettive opposte, arrivando a conclusioni diverse da quelle oggi più popolari.
Il report di Vlado Azinović sui Foreign Fighter
Vlado Azinović, professore del dipartimento di Scienze Politiche dell’università di Sarajevo, esperto in terrorismo, ha recentemente discusso la presenza di foreign fighter bosniaci in Siria e Iraq, riprendendo temi già affrontati nel suo report dell’anno scorso per l’Atlantic Initiative, organizzazione no-profit di Sarajevo.
Nell’ultimo mese è tornato sulla questione dando adito ai media di riaprire il dibattito: sono 63 uomini, 51 donne e circa 60 minori (numeri confermati anche dal ministero dell’Interno bosniaco) i foreign fighter di cui parla Azinović, che sostiene che molti hanno deliberatamente deciso di non avere più alcun documento che li legasse alla patria, nella prospettiva di non tornare più a casa. Ovviamente, sottolinea, anche se ritornassero sarebbero individuati dal servizio di intelligence, in quanto risulterebbero clandestini. Azinović ha anche aggiunto che le possibilità che la Bosnia sia vittima di un attacco terroristico sono uguali a quelle del resto del mondo e tali rischi non sarebbero comunque ascrivibili ai rimpatri (clandestini e non), ma alle persone “non mappate” che agiscono sull’onda della tendenza islamista. Un’onda che ha creato e radicalizzato movimenti locali. Il problema dei rimpatri viene ridimensionato, giacché i foreign fighters non fomenteranno un nuovo flusso migratorio, ma si uniranno, con buone probabilità, a macro-ondate che investiranno l’Europa nei mesi a venire: in tal senso smorza sia in senso qualitativo sia in senso quantitativo le affermazioni della presidente croata Kolinda Grabar-Kitarović, che ha sostenuto ci siano migliaia di bosniaci tra le file dell’Isis pronti a tornare in patria.
La ricerca sui salafiti di Srđan Puhalo
Srđan Puhalo è un sociologo bosniaco che ha dato alle stampe il libro “Selefije u BiH” (Salafiti in Bosnia Erzegovina), con il quale ha illustrato le paure e gli stereotipi che aleggiano sui musulmani salafiti in Bosnia Erzegovina. Ha adottato un punto di vista “opposto” a quello di Azinovic, focalizzandosi su un paese considerato dai media come base per l’Isis in Europa e non sui foreign fighter.
In cinque mesi di ricerca ha intervistato un migliaio di bosniaci chiedendo le loro opinioni sui salafiti, per sottolineare gli stereotipi che aleggiano su questa corrente dell’Islam e quanto siano radicati. A partire dalla provocazione della copertina del libro, che ritrae un uomo con tunica e barba lunga che vuole sembrare un fondamentalista islamico, ma altro non è che un dj hipster, Puhalo dimostra che esiste tutt’ora grossa ignoranza sul salafismo e sul wahhabismo (termine di gran lunga più politically correct) e come questi termini vengano utilizzati impropriamente. Le statistiche raccolte hanno illustrato come un 38% degli intervistati credano che i salafiti, considerati erroneamente come terroristi, siano stati “importati” in Bosnia-Erzegovina. Il 40% crede che essi siano vittime di violenza per motivi religiosi e il 22% crede che nel paese ne siano presenti decine di migliaia. La ricerca ha inoltre dimostrato che, smontando un altro luogo comune, siano molti più i croati dei serbi ad aver paura dei salafiti.
Intervistando i bosniaci salafiti, Puhalo ha notato che essi sono socialmente e visivamente diversi da come vengono definiti dai luoghi comuni delle statistiche da lui raccolte. Inoltre, tra i 126 intervistati non ha verificato presenza di sostenitori dell’Isis, dimostrando, pertanto, come il potere dell’informazione possa creare delle storture difficili da sradicare.
foto: La Stampa