INTERVISTA: i viaggi di Alessandro Gori, moderno Cramâr tra Friuli e oriente

© Alessandro Gori

Ciao Alessandro, ti va di presentarti ai nostri lettori?

In realtà le definizioni chiuse mi vanno un po’ strette, ma come appare nella didascalia del mio sito, potrei identificarmi come «Viandante, Giornalista, Gastronomade, Fotografo e Futbolero». Da anni ormai mi muovo costantemente visitando vari paesi, ma anche cercando di tornare spesso in molti posti nei quali mi sento come a casa. La parola viaggiatore è però abusata e sento che non mi rende giustizia, preferisco dunque viandante. Nei miei viaggi oltre alle persone, ha acquisito sempre più importanza la conoscenza delle specialità locali con i loro sapori e profumi, da qui l’azzeccata definizione di gastronomade, affibiatami in un’intervista al sito Bora.la.

Sono un giornalista freelance e uso le mie fotografie per illustrare gli articoli e reportage che scrivo. Infine, sono un appassionato di calcio (ovvero futbolero in castigliano), inteso anche come un modo e una scusa per conoscere e raccontare storie, paesi, questioni geopolitiche e sociali.

Sono molti anni ormai che viaggi un po’ in tutto il mondo; che cos’è che ti spinge ogni volta a partire e cosa ti porti dietro quando torni in Friuli?

Dopo aver vissuto in diverse città europee e aver successivamente viaggiato per qualche anno quasi continuamente, mi sento ormai un vagabondo, o meglio un viandante come dicevo prima. Anche se in questo momento ho una casa in Carnia, che ora uso come base per i miei spostamenti.

Volendo utilizzare una metafora ardita, a volte mi sento una specie di moderno Cramâr, anche se le mie motivazioni sono completamente diverse. I Cramârs erano quei carnici che circa dal XVI secolo e anche prima, ogni inverno con molti sacrifici abbandonavano le scarse risorse offerte dal loro territorio, attraversavano le montagne e si recavano a piedi nelle regioni dell’Impero Austro-Ungarico. Si occupavano di piccolo commercio, vendendo medicine, spezie che arrivavano a Venezia, stoffe, oggetti di artigianato. Poi, alla fine della stagione, ritornavano a casa portando in Carnia altre spezie, idee e quant’altro trovate sul loro cammino. Il loro nome deriva dal tedesco Krämer, merciaio, e per trasportare i loro prodotti usavano in spalla la “cràssigne” o “cràme”, un arnese in legno dotato di cassetti. I miei vagabondaggi, che non sono a piedi e con lo zaino al posto della crassigne, spesso si sviluppano alla ricerca di storie, persone e luoghi, ma riporto indietro anche sensazioni, emozioni, odori, sapori.

Ti sei interessato molto di Balcani nella tua attività giornalistica, com’è cominciata l’avventura in quelle terre?

Per contiguità territoriale la Jugoslavia era comunque presente, anche se non avevo avuto la possibilità di visitare molte repubbliche fino a poco prima dell’inizio della guerra. Iniziai invece a conoscerle in un modo inconsueto, attraverso il calcio. In Italia, si sa, il calcio viene spesso considerato di un livello culturalmente inferiore, ma non è così in altri paesi, soprattutto in America Latina o in Spagna, dove alcuni tra i migliori scrittori sono tifosissimi e hanno partorito mirabile letteratura sull’argomento. Da alcuni anni ormai ero diventato tifoso della Crvena Zvezda, la Stella Rossa di Belgrado, soprattutto per la fantasia e la tecnica di alcuni suoi calciatori. Proprio nel 1991 la Zvezda si laureò inaspettatamente Campione d’Europa (e poi Campione del Mondo) e io ero presente allo stadio nelle due semifinali e nella finale di Bari.

Avendo conosciuto la Serbia prima, quando iniziò il conflitto mi sorprese constatare che l’unica spiegazione presentata da molti mezzi di comunicazione occidentale dell’epoca si limitava ad attendere l’ennesima granata che provocava una nuova strage in qualche angolo della città assediata Sarajevo. Sicuramente era necessario testimoniare il vergognoso assedio alla città martire, ma per avere una visione globale del conflitto e capirne le radici era necessario anche altro.

In Serbia non andava praticamente nessuno, essendo considerata la repubblica colpevole quasi unica del conflitto. In un’epoca precedente all’avvento di Internet, sulla stampa occidentale non si trovavano informazioni su ciò che stava accadendo in quel paese. Decisi così di cercarle per conto mio, recandomi a Belgrado almeno una volta all’anno, per verificare di persona la disastrosa situazione politica e sociale, l’isolamento, l’atmosfera plumbea che incombeva sul paese, sigillato in un embargo durissimo per la popolazione e che invece permetteva di realizzare guadagni inverosimili ai mafiosi di varie nazionalità, europei occidentali e italiani inclusi, in combutta con quelli locali. Così iniziai a pubblicare i primi articoli su giornali e riviste come giornalista freelance.

Cosa pensi sia cambiato dalla guerra degli anni Novanta ad oggi nei Balcani?

Sono intimamente convinto che i conflitti balcanici hanno significato la più grossa operazione mafiosa degli ultimi decenni in Europa, per l’enorme quantità di denaro guadagnato grazie alla guerra e all’embargo, con i politici in teoria nemici tra di loro che facevano affari d’oro, da soli o insieme. Attualmente il contesto economico e sociale delle repubbliche ex Jugoslave è disastroso, eccezion fatta ovviamente per la Slovenia. Spesso la ricostruzione e la ripresa dalle conseguenze della guerra sono rimaste in sospeso, anche a causa della perdurante crisi economica, locale e globale. Ma molte questioni sono ancora aperte.

La Bosnia è oltremodo divisa e politicamente non esiste davvero come stato, la sua economia è frammentata e le tragiche conseguenze del conflitto hanno profondamente cambiato il tessuto della sua società. In Serbia se la passano solo leggermente meglio. Si fanno ancora sentire le tragedie degli anni Novanta: nazionalismi, guerre, i lunghi anni dell’embargo con le sue sequele, le centinaia di migliaia di profughi serbi riversatisi sul territorio, l’emigrazione massiccia di giovani laureati, i bombardamenti “umanitari” della NATO del 1999, l’omicidio del Primo Ministro riformatore Zoran Đinđić nel 2003, il problema del Kosovo, la perdurante crisi economica e sociale, il prolungato isolamento, il retaggio dei lunghi anni in cui il paese è stato gestito da potenti mafie. Un panorama da tregenda. Dopo gli arresti di Radovan Karadžić e Ratko Mladić per la Serbia arriverà forse una ricompensa, con un acceleramento del processo di integrazione anche se rimane sempre aperto il nodo del Kosovo. Ma anche dopo aver ricevuto lo status di candidato (forse a novembre), il cammino sarà comunque lungo e tortuoso.

Attorno ai Balcani, poi, sono nati progetti di ampio respiro nel 2006 come il documentario Trubačka Republika (La Repubblica delle Trombe) assieme a Stefano Missio e la traduzione della prima guida turistica della Serbia in italiano assieme all’amico friulano Andrea Pilia: vuoi raccontarci come sono nati questi progetti?

Dal 2001 in poi ho mancato poche volte l’annuale appuntamento con il Sabor Trubača di Guča. Si tratta della più grande manifestazione di ottoni del mondo che ormai da oltre mezzo secolo si organizza in un paesotto di 4mila abitanti a circa 150 km da Belgrado tra le meravigliose colline della Šumadija, il cuore boscoso del paese. Guča negli ultimi anni ha assunto un posto centrale nell’immaginario culturale serbo, aumentando a dismisura le presenze fino alle 4-500mila persone attuali, con decine di migliaia di stranieri il cui numero è in continuo aumento. Ma il Sabor rappresenta tuttavia solo il momento più alto del connubio tra i serbi e la tromba in un misto di allegria e di tristezza. Da queste parti tutti i momenti importanti della vita delle persone vengono accompagnati da orchestre di ottoni.

In pieno embargo (che era anche culturale e sportivo) e isolamento della Serbia, nel 1995 Emir Kusturica vinse la “Palma d’Oro” a Cannes con Underground, in cui le trube sono protagoniste assolute. Quelle stesse atmosfere nella loro versione più genuina e verace si rivivono proprio a Guča, dove Goran Bregović si è per così dire “ispirato” per le “sue” musiche. L’impatto fu notevole e lo si notò anche in Europa Occidentale, dove le trube ebbero uno straordinario successo, testimoniato dai moltitudinari concerti di Bregović e successivamente della No Smoking Orchestra di Kusturica in ogni angolo del globo. Quelle melodie costituivano forse l’unico aspetto culturale serbo non solo conosciuto, ma accettato in modo estremamente positivo all’estero di fronte all’immagine dei serbi presentata dai media occidentali che continuava ad essere decisamente negativa; nel frattempo, a causa del rigoroso regime di visti durato fino al dicembre 2009, per i serbi non era così facile attraversare le frontiere.

Per raccontare queste tradizioni, insieme all’amico regista Stefano Missio abbiamo realizzato il documentario Trubačka Republika (La Repubblica delle Trombe), presentato in oltre cinquanta festival di diversi paesi. In Occidente quasi nessuno conosce quello che accade non solo in Serbia, ma anche nelle altre repubbliche nate dalla dissoluzione della Jugoslavia: uno spazio a noi geograficamente vicino ed estremamente interessante da tutti i punti di vista. Ma ciò che mi ha sempre colpito è lo spirito delle persone: non ne avevo mai incontrate di così aperte, nonostante le guerre e la violenza estrema.

Da tempo cerco in molti modi di stimolare i viaggi verso i Balcani e la Serbia in special modo, proponendo itinerari o facendo direttamente da guida agli amici affinché possiedano una visione diretta del paese, durante il festival di Guča o in altri momenti. Tutti rientrano estremamente soddisfatti, alcuni addirittura entusiasti si propongono di ritornarci, soprattutto per le straordinarie persone che si trovano in quelle regioni. Per “aiutarmi” in questo compito, insieme ad Andrea Pilia abbiamo tradotto Serbia a Portata di Mano, la prima guida turistica in italiano su quel paese, scritta e pubblicata da amici serbi.

Nell’estate del 2009 hai compiuto il memorabile “Dalla Carnia al Caucaso via terra”, un viaggio di due mesi senza mai prendere un aereo dal Friuli alla volta del Caucaso. Un’avventura straordinaria che è stata trasmessa grazie ai tuoi resoconti ai microfoni di Radio Onde Furlane. Quali Paesi hai visitato e quale atmosfera si respira?

Il progetto era bellicoso: due mesi senza prendere aerei, partendo dalla Carnia per arrivare fino in Caucaso. L’obiettivo principale del viaggio era la Georgia. Già nel 2003 c’ero stato, sempre via terra ma con un autobus diretto İstanbul-Tbilisi. Purtroppo allora non avevo molto tempo a disposizione e non mi potei fermare per strada, né esplorare la regione. Da allora, ogni anno avevo in mente di ritornarci. Nel 2009 l’esperienza si è rivelata poliedrica e variegata. La prima parte Balkan visitando posti già noti ma nei quali volevo ritornare, in Bosnia e in Serbia fino al festival di Guča. Poi, raggiunto da tre compagni di viaggio, siamo partiti da Belgrado per il lungo percorso fino in Caucaso: la favolosa İstanbul, le meraviglie dell’estremo Est della Turchia, la stupefacente visione dell’Ararat, il favoloso palazzo di İshak-paşa a Doğubayazıt, la sorpresa di Ani, l’antica capitale armena anch’essa in territorio turco. Quindi la Georgia, grazie ad alcuni amici del posto che ci hanno guidati alla scoperta del loro fantastico paese, tra montagne misteriose, chiese antichissime e tradizioni millenarie, soprattutto legate al vino. Infine, di nuovo in solitaria, le avventure in territori improbabili come Abkhazia e Nagorno Karabakh (via Armenia), dove è terminato il mio periplo. Il viaggio è stato accompagnato dalla trasmissione radiofonica “Il Torzeòn”, una serie di collegamenti telefonici andati in onda su radio Onde Furlane, e da un blog con aneddoti, storie, foto, video e tutte le puntate del programma che è poi confluito nel mio sito, AlessandroGori.Info.

Quali sono state le esperienze più significative che hai vissuto durante il tuo vagabondare e in qualità di giornalista?

A parte i Balkani che sono fuori classifica, il viaggio fino in Caucaso è stato sicuramente tra quelli più significativi, come le avventure vissute nei diversi giri in Argentina e le moltissime storie che ne sono uscite. A livello giornalistico i due reportage che mi hanno segnato di più sono legati al nucleare, un tema di moda anche in questo momento. Il primo fu la visita alla Zona Proibita di Černobyl’ nel 2002: all’epoca l’autorizzazione veniva concessa solo a scienziati, giornalisti o a persone con motivazioni speciali. Negli ultimi anni invece è iniziata una vera e propria operazione turistica con tanto di agenzie private che offrono la possibilità di recarsi sui macabri luoghi della tragedia nucleare con diversi autobus che quotidianamente scaricano nella Zona varie dozzine di turisti. Quel giorno ero solo, insieme alla mia guida e all’autista che mi aveva portato fin lì da Kyiv; ricordo soprattutto gli anziani che vivono nella Zona e il silenzio assordante della città di Pripjat’, evacuata poche ore dopo l’incidente e rimasta praticamente intatta. L’altro, del 2003, riguarda Hiroshima con l’intervista a una hibakusha: così si chiamano i sopravvissuti alla Bomba Atomica con una parola che letteralmente significa «persona che ha subìto l’esplosione». Era una signora di 73 anni, ne aveva 15 il giorno della Bomba: il suo racconto dell’Apocalisse mi lasciò sconvolto.

Dal tuo sito internet si evince che i tuoi taccuini di viaggio  potranno essere editi: c’è qualche anticipazione in merito? Quali progetti hai in cantiere?

Si, da tempo esiste un progetto (anzi vari) per far trasformare in libri le moltissime storie incontrate vagabondando in diversi paesi. Speriamo di riuscire a trovare una casa editrice interessata.

Chi è Silvia Biasutti

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