Nelle ultime settimane, l’opinione pubblica russa è stata scossa dal ritorno dell’annoso problema della memoria dei crimini staliniani. La questione, sempre e comunque attuale, è stata riportata in auge dalla pubblicazione di alcune liste contenenti i nomi dei membri della polizia segreta (NKVD) durante gli anni 1935-1939. Una lista con più di 40 mila nomi è stata pubblicata da Memorial ed è disponibile online, un’altra è stata redatta da Denis Korogodin, pronipote di una delle vittime. Il periodo del grande Terrore – che culminò nel biennio 1936-1938, in cui avvennero le Grandi purghe – è ricordato dai russi anche come Ežovščina, dal nome del capo dell’NKVD di quegli anni, Nikolaj Ežov. E’ giusto che, oltre a quello di Ežov, siano resi noti i nomi degli altri partecipanti ad avvenimenti così tragici? Le persone nominate nella lista sono presumibilmente tutte morte, dunque che senso ha rivangare crimini su cui non può più essere fatta giustizia? Attorno a questa domanda ruota una più ampia discussione sulla memoria dei crimini del regime e sul suo posto nella Russia post-sovietica, un problema che tutte le società post-totalitarie hanno dovuto affrontare. Nel caso russo, il neonazionalismo e la continuità di alcuni elementi con il regime precedente rendono la questione ancora più complicata.
Ogni società post-dittatoriale si ritrova con un sistema che deve necessariamente rompere con il passato e gettare le basi per costruire uno stato solido, legittimo e credibile. Per raggiungere questo obiettivo, le nuove autorità devono fare i conti con i protagonisti del vecchio regime e attuare una sorta di pulizia, soprattutto ai vertici delle istituzioni. Questa pratica viene chiamata “lustrazione” e fa parte di quella che viene chiamata giustizia di transizione. Durante la transizione degli anni ’90, gli stati dell’Europa centro-orientale hanno vissuto il “dilemma del torturatore”, così com’è stato chiamato da Samuel Huntington. Il politologo statunitense, infatti, aveva descritto il dissidio tra il “perseguire e punire” e il “perdonare e dimenticare” che si presenta al momento di decidere cosa fare con i vecchi leader del regime.
A differenza di altri stati, le pratiche di lustrazione nella Russia post-sovietica sono state pressoché nulle. I colpevoli non sono stati perseguiti e non ci sono stati processi. In alcuni casi, anzi, i veterani della polizia segreta ricoprono attualmente posizioni di potere. Vladimir Putin è solo un esempio di questa tendenza, ma sono molti gli ex agenti del KGB che oggi occupano poltrone importanti, soprattutto nel settore energetico. Fin dal suo primo mandato, infatti, Putin si è subito contornato di fidati ex-colleghi.
I crimini sovietici non trovano troppo spazio nella narrativa russa oggigiorno, non solo come conseguenza di un neonazionalismo che esalta le conquiste sovietiche e oscura le pagine più buie, ma, ipoteticamente, anche per un conflitto di interesse con coloro che nel vecchio sistema appartenevano a una certa categoria e tutt’oggi cercano di mantenere una posizione di potere. Così, mentre monumenti discutibili e discussi come quelli a Ivan il Terribile o al principe Vladimir trovano sempre più spazio nelle politiche di memoria, i crimini perpetrati dalla polizia segreta sovietica risultano ancora impuniti e dimenticati.
Dmitrij Peskov, portavoce del presidente russo, ha dichiarato che l’argomento è sensibile e che l’opinione pubblica è divisa su due fronti opposti. Tuttavia, se certi argomenti trovassero più spazio nella storia ufficiale del paese, almeno come forma di “riparazione morale” per i parenti delle vittime, forse questa spaccatura non ci sarebbe e il popolo russo riuscirebbe finalmente a guardare al proprio passato con più consapevolezza.
Questo articolo è frutto della collaborazione con MAiA Mirees Alumni International Association. Le analisi dell’autrice sono pubblicate anche su PECOB, Università di Bologna.
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