FOTOGRAFIA: La Cecenia di Davide Monteleone

Davide Monteleone è un fotografo, giornalista e documentarista. Classe 1974, vive tra l’Italia e Mosca, dove osserva l’Oriente (e non solo) tra collaborazioni con testate internazionali e progetti personali. Tra i suoi lavori, Dusha – Anima russa (2007), La linea inesistente (2010), quella della cortina di ferro vent’anni dopo, e A Modern Odyssey (2012), viaggio nell’Artico su una nave da carico diretta in Cina. Con Spasibo (2013), viaggio alla scoperta della Cecenia, ha vinto il premio della Fondazione Carmignac (sezione fotogiornalismo) e altri importanti riconoscimenti, come il “Migliore libro dell’anno” del Paris Photo e Photo District News (PDN) e la menzione d’onore all’Aperture Portfolio Prize.

Rada, 14 anni, indossa un abito da sposa disegnato da sua sorella sul set di un film. Il "fantasma che vola su Grozny" è diventato il simbolo di Spasibo.
Rada, 14 anni, indossa un abito da sposa sul set di un film. Il “fantasma che vola su Grozny” è diventato il simbolo di Spasibo.

 

Partendo da Mosca, hai fotografato la Cecenia, l’Ucraina, il Tagikistan e hai percorso la “cortina di ferro”. Perché l’est? Una passione irrefrenabile per lo spazio post-sovietico o soltanto il caso?

Un po’ di passione ce l’ho sempre avuta per questa parte di mondo, frutto forse della mia generazione. Poi per una coincidenza della vita, perché nel 2001 mi hanno offerto di venire qui. Doveva essere una parentesi breve, e invece è stata piuttosto lunga. Ci si rimane un po’ invischiati, anche perché il territorio è vasto, religioni, società e abitudini molto diversificate, e ancora più complesse se prendiamo in considerazione lo spazio dell’ex Unione Sovietica.

In tutto questo tempo, com’è cambiata la tua percezione di questo mondo?

In generale, la Russia è cambiata tanto negli ultimi 15 anni, cioè da quando la conosco io; Mosca in particolare, ma sotto certi aspetti tutto il territorio post-sovietico. Ovviamente sono arrivato qui con una coscienza relativa, pregna di tutti gli stereotipi che un europeo può avere, quindi mi concentravo su questo, notavo molto gli indizi che rimandavano all’esperienza sovietica. Nel tempo le cose sono molto cambiate a livello sociale, economico e politico. In questo ultimo periodo c’è un evidente revival di imperialismo: oltre ai nostalgici dell’epoca sovietica, adesso si esprimono più apertamente anche i nostalgici dell’era zarista; qualcuno comincia a chiedersi “se la rivoluzione di ottobre non ci fosse mai stata, forse la Russia sarebbe un paese migliore”.

Una giovane donna prega nell'unica madrasa femminile della Cecenia.
Una giovane donna prega nell’unica madrasa femminile della Cecenia.

 

Hai avuto modo di conoscere la Cecenia in diverse occasioni prima di Spasibo. Ma come è nato questo progetto?

Avevo appena finito un lavoro sul Caucaso, e decisi di partecipare a una call della Fondazione Carmignac. Ero un candidato ideale per questo premio, ma non ero convintissimo di vincere. E invece ho vinto e mi è toccato tornare in Cecenia. L’idea era abbastanza banale e ovvia: mi interessava capire che cosa significava una Cecenia indipendente dopo due guerre, e che cosa significasse un’identità cecena sotto un’autarchia come quella di Kadyrov, che da un lato promuove i valori della Cecenia tradizionale, e dall’altro li sconvolge con le sue idee piuttosto personali, osservando come realtà come la Cecenia siano di fatto un microcosmo della Russia stessa.

Forze di sicurezza durante la celebrazione del 10° anniversario della Costituzione cecena. In secondo piano, i palazzi di Grozny, simbolo della ricostruzione dopo la distruzione delle guerre. 23 marzo 2013
Forze di sicurezza durante la celebrazione del 10° anniversario della Costituzione cecena. In secondo piano, i palazzi di Grozny, simbolo della ricostruzione dopo la distruzione delle guerre. Grozny, 23 marzo 2013

Sei andato più a fondo, cercando di superare la posizione tipicamente occidentale di critica nei confronti della Cecenia e del suo presidente. Cosa hai scoperto?

Più che superarla, volevo far capire che la situazione attuale è un risultato di un sistema, non la responsabilità di una sola persona. Certamente hanno influito i due conflitti interni, ma anche una situazione feudale della Russia intera, che in Cecenia è estremamente ben rappresentata oggi.

In Spasibo hai cercato l’identità nella contrapposizione tra il passato e il presente, tra il potere assoluto e il singolo. Ma chi sono, dunque, i ceceni?

Nei miei lavori è difficile che ci siano delle conclusioni nette, anzi molto spesso sono osservazioni che lasciano molto spazio all’interpretazione. Però la questione è questa: ci sono stati due conflitti in epoca contemporanea. Molti ceceni sono andati via, e probabilmente sono quelli in cui è più viva l’identità tradizionalmente cecena; le persone che invece sono rimaste hanno dovuto modificare la loro identità per continuare a vivere in una maniera normale.

Un compromesso…

Si. Questa è una questione globale, che non riguarda solo la Cecenia ma l’intero spazio post-sovietico. Come si mantiene l’identità di un popolo? Si mantiene meglio se si va via, o se resti e affronti la tua condizione cercando di vivere una vita normale? Quello che è successo in Cecenia è innegabile, la violenza fisica si è trasformata in violenza psicologica, ma la gente sta meglio di quando viveva in guerra. Inizialmente erano felici di avere una casa e l’acqua corrente, gliene importava poco della libertà. Ammesso e non concesso che non sia sopravvalutato, il processo democratico purtroppo è un concetto piuttosto lungo. Per avere una democrazia, e speriamo che succeda, in Cecenia ci vorranno altri dieci anni. Ed è normale che sia cosi, non si può pretendere che da un giorno all’altro un paese che è stato devastato dalla guerra assuma tutti i principi della democrazia, cosi come la intendiamo noi che questi conflitti li abbiamo risolti da tempo.

Sostenitori di Kadyrov nella piazza principale di Grozny, durante il 10° Giorno della Costituzione. Sullo sfondo, la Grande Moschea e i grattacieli della capitale. Grozny, 23 marzo 2013

Tutto questo traspare un po’ dalla calma, dall’ordine che hai immortalato nelle tue foto. È un simbolo?

Da un lato, una scelta estetica e fotografica; dall’altro è un’osservazione: le strade sono pulite, non succede niente di grave, non ci sono crimini. Anche questa è una tradizione russo-zarista. Penso ai villaggi Potëmkin, simpatico generale e amante di Caterina la Grande, che costruiva questi finti villaggi quando Caterina si addentrava nel regno, per farle sembrare che in Russia fosse tutto a posto. In Cecenia usano più o meno la stessa tecnica, che poi non è neanche cosi diversa da quello che facevano i romani col “panem et circenses”: gli si da qualcosa, come la moschea più grande del mondo o il centro commerciale più affascinante di Russia ecc. ecc., e la gente rimane così, disorientata, si dimentica di quello che è successo realmente. Ma in mezzo c’è una vita che scorre, fatta di persone normali, che in qualche modo cercano di far finta di niente e guardare alle cose buone.

Colpisce molto la foto del poster di Dudaev e la storia della signora che lo custodiva segretamente, simbolo di una memoria che è stata cancellata…

Si, esatto. E ho un altro aneddoto di questa natura. Ma ti faccio io a te una domanda: se dovessi interpretare una storia che è successa cent’anni fa e di cui non vi sono più tracce, per esempio la Rivoluzione russa, come la racconteresti? Io ho posto questa questione ai russi, in particolare al direttore di un museo a San Pietroburgo. Gli ho chiesto se ci saranno delle celebrazioni per il centenario della rivoluzione. E lui mi ha risposto “assolutamente no!”. Vedi, l’abitudine di cancellare la storia nel bene o nel male da queste parti è una costante.

A proposito di percezioni dei cittadini rispetto al potere e di violenza psicologica, come commenti i risultati elettorali dello scorso settembre?

E cosa c’è da commentare? Il risultato era scritto. Kadyrov ha vinto con oltre il 97%, record di affluenza alle urne… Per citare Stalin, “non è importante chi vota, ma chi conta i voti!”. È relativo se tutte queste persone siano effettivamente andate a votare, è più importante che qualcuno conti. E come conta. Ma se anche ci fosse stata libertà di voto, per chi altri avrebbero potuto votare? Non c’è pluralismo. La cosa che mi incuriosisce molto è che prima o poi la sua era finirà, non so come, ma come si dice “chi lascia la via vecchia per la nuova…”. Potrebbe andare peggio!

Questo articolo è frutto della collaborazione con MAiA Mirees Alumni International Association e PECOB, Università di Bologna.

Chi è Francesca Barbino

Nata in Calabria nel 1993, vive a Forlì dove si è laureata presso il MIREES, Interdisciplinary Research and Studies on Eastern Europe. Da maggio 2016 collabora con East Journal, per il quale si occupa principalmente di Caucaso.

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