“Abbiamo subìto due attentati in due ore: uno da armi da fuoco, l’altro dalla legge”. Così il giornalista Can Dundar commenta la sentenza del processo che lo vede imputato insieme al collega Erdem Gul. Il 6 maggio scorso il direttore del quotidiano d’opposizione Cumhuriyet è stato condannato a 5 anni e 10 mesi per aver rivelato segreti di Stato, il capo redazione di Ankara Gul a 5 anni. La procura aveva chiesto prima l’ergastolo e poi rispettivamente 25 e 10 anni, ma la sentenza lascia cadere il capo d’imputazione per spionaggio. La vicenda riguarda lo scoop di Cumhuriyet sul traffico di armi verso la Siria gestito dai servizi segreti turchi, esploso all’inizio del 2014.
Can Dundar ‘traditore!’
Can Dundar ha rischiato di finire direttamente al cimitero. Mentre stava entrando nel palazzo di giustizia un uomo gli ha sparato due colpi di pistola da distanza ravvicinata. I proiettili hanno ferito di striscio un reporter lasciando Dundar illeso. Fondamentale l’intervento della moglie del giornalista, Dilek, e del deputato del CHP Muharram Erkek che lo stavano accompagnando e hanno bloccato l’uomo armato.
L’attentatore ha gridato ‘Traditore!’ mentre sparava a Dundar. Identico appellativo aveva ricevuto niente di meno che dal presidente Erdoğan, qualche mese fa. Questa parola è il perno attorno a cui si è sviluppato un clima di intimidazione – per tutto il giornalismo in Turchia, non soltanto per Cumhuriyet – che ha contribuito, anche se indirettamente, a questo attentato. Atmosfera ancora più fosca perché ricorda da vicino le circostanze dell’assassinio di Hrant Dink, giornalista turco-armeno di Agos ucciso a Istanbul nel 2007.
Tutte le accuse del presidente
Erdoğan si è speso in prima persona in questo processo. Esternazioni che di istituzionale hanno poco o nulla – “Pagheranno un prezzo pesante” – e critiche alle decisioni di altri poteri dello Stato (quando ha protestato contro l’ordine di scarcerazione di Dundar e Gul deciso dalla Corte costituzionale), oltre a “pressioni” sul processo con la richiesta di ergastolo per i due giornalisti che ha avanzato al procuratore.
Interventi sempre più duri man mano che venivano smascherate le menzogne usate da Erdoğan per mettere a tacere la vicenda del traffico di armi. Prima erano aiuti umanitari ai turcomanni di Siria. Poi il contenuto dei camion era un segreto di Stato gestito dai servizi segreti, vietato fare domande (ma perché mai nascondere l’invio di aiuti umanitari?).
Quindi la prova finale: foto e video della perquisizione dei camion, sotto le scatole di farmaci spuntano armi e munizioni. Materiale che Cumhuriyet ha pubblicato alla vigilia delle elezioni dello scorso giugno. Erdoğan aveva mentito, impossibile ormai negare l’evidenza. Risolto il capitolo elezioni con quelle riparatorie di novembre, il contrattacco: a fine mese Dundar e Gul erano finiti in cella. Chissà che paese potranno raccontare quando usciranno, fra 5 anni.
La mordacchia ha tanti volti
Il 3 maggio, giornata mondiale della libertà di stampa, l’agenzia di stampa indipendente turca BİA ricordava che nei primi 4 mesi del 2016, in Turchia sono stati licenziati o costretti alle dimissioni 174 giornalisti e 28 sono in carcere insieme a 10 editori. Per Freedom House lo stato dei media in Turchia è “non libero” e segna uno dei più forti peggioramenti a livello globale nell’ultimo anno.
Se le statistiche non piacciono, basta guardare alle mille piccole e grandi vicende quotidiane per avere il polso della situazione. L’autocensura per timore di ripercussioni, ad esempio. E mentre Merkel “serve per il tè” a Erdoğan il comico Jan Böhmermann (la frase è di Böhmermann), reo di aver preso in giro il presidente in uno spettacolo tv in Germania (e l’Ue firma criticabilissimi patti sui migranti con Ankara), sempre più corrispondenti di testate internazionali e non solo si vedono rifiutare il rinnovo del visto. Anche così si controllano i media in Turchia, oggi. Ma fa meno notizia. In tutti i sensi, purtroppo.