Guida pratica alla creazione di un mostro. Islamofobia e scontro di civiltà

All’indomani degli attentati all’aeroporto e alla metropolitana di Bruxelles, il Giornale pubblicava un articolo di Alessandro Sallusti intitolato “Cacciamo l’Islam da casa nostra”. Si tratta di qualche paragrafo – scritto probabilmente “a caldo” – ma che rappresenta un buon esempio del messaggio d’allarme che le penne più reazionarie del panorama giornalistico italiano, con sempre maggiore insistenza, si premurano di diffondere: l’assoluta incompatibilità tra Islam e civilizzazione occidentale. Sallusti, per capirci, scomoda la battaglia di Lepanto del 1571 per tracciare un parallelo con l’Europa del 2016: “siamo in guerra”, dice. E, cosa ancor più importante, rinsalda il nesso – centrale nella narrazione dell’Islam della testata da lui diretta – tra fede islamica, terrorismo internazionale e immigrazione clandestina.

Questa narrazione dello “scontro tra civiltà” – che ricicla il titolo e (grossomodo) le teorie del noto saggio di Samuel P. Huntington – non rappresenta in sé una novità, ma ha conosciuto un nuovo slancio dopo gli attentati di gennaio 2015 contro la redazione di Charlie Hebdo, a Parigi, e con la comparsa del gruppo terroristico ISIS sul panorama internazionale. L’ineluttabilità dello scontro tra due civiltà – tra Islam e mondo occidentale – è un’immagine dal potere di seduzione enorme, perché offre una chiave di lettura semplice di una situazione complessa, riassumibile in una formula lapidaria del tipo “è così perché non potrebbe essere diversamente”. E, per questo motivo, è particolarmente pericolosa.

La costruzione di un’identità nazionale – o, come in questo caso, di una civiltà – è un processo dotato di una dimensione spaziale inerente: si definiscono i contorni, si stabiliscono le frontiere, fisiche e socioculturali, tra “noi” e “loro”, tra l’Io e l’Altro. Nell’articolo di Sallusti, l’Io è (culturalmente) bianco, occidentale, figlio dell’Illuminismo, presumibilmente di tradizione cristiana e, in virtù di ciò, moralmente e culturalmente superiore all’Altro orientale, retrogrado, intollerante e musulmano. Lo scontro è inevitabile, soprattutto perché – Sallusti ne è certo – non esiste alcuna differenza tra Islam e terrorismo internazionale. I musulmani moderati, nella rappresentazione proposta dal Giornale, sono quelli che magari “non maneggiano bombe”, ma “fanno e faranno da brodo di coltura, da rete di protezione e complicità” ai terroristi. La soluzione? Un giro di vite contro l’immigrazione clandestina, evidentemente, “prima che sia troppo tardi”.

Islam, terrorismo e immigrati: il trinomio è servito. L’articolo di Sallusti, però, è solo un esempio di come una certa parte della stampa costruisce l’immagine della religione islamica. Ancora un esempio: in un altro articolo, Vittorio Feltri insiste sulla necessità che i musulmani moderati – lì dove ce ne fossero, beninteso! – contribuiscano alla lotta contro i loro “confratelli dediti allo sterminio”. Cito un passaggio:

[…] Perché non lo danno questo benedetto contributo? Si frequentano tra islamici, si incontrano nelle moschee, si riconoscono anche solo dall’aspetto e dall’abbigliamento (non sempre), non penso farebbero fatica a individuare i soggetti pericolosi meritevoli di essere isolati, denunciati e disarmati. […]

Oltre all’implicita superiorità morale che consente all’autore d’esigere la condanna del terrorismo internazionale da parte dei musulmani “moderati” – dietro pena di vedersi spogliati del virgolettato – l’articolo presenta il credente musulmano come un individuo dotato di tratti distintivi peculiari, che ne consentirebbero (ma non sempre, sia chiaro!) l’immediato riconoscimento. Ma poi, esistono davvero dei musulmani moderati? Se lo chiedeva Libero, due settimane dopo gli attentati di novembre a Parigi, con un sondaggio online corredato da questa immagine:

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Frontiere socioculturali, dicevamo, ma anche fisiche: è una geopolitica della paura, che consiste nel rappresentare determinati luoghi come innatamente pericolosi. Ricordate Fox News e le “no-go zone” della banlieu parigina dopo gli attentati di gennaio? Se Salah è una “bestia”, Molenbeek si trasforma, dunque, in un “covo di belve”. C’è di più: “Molenbeek”, da nome proprio di una cittadina della periferia di Bruxelles, diventa una parola di uso comune, e dunque utilizzabile al plurale. Le Molenbeek, appunto, sarebbero tutti quei luoghi suscettibili di ospitare focolai del terrorismo internazionale. Luoghi da bonificare.

Ora, è chiaro che ci si potrebbe limitare a rilevare l’islamofobia – più o meno velata – che accompagna tale visione dell’Islam da parte di certi periodici nostrani. Ma questa narrazione, che collega Islam, terrorismo e immigrazione e che gioca costantemente sul senso d’urgenza comunicato da certe immagini – come quella di un’Europa sull’orlo dell’invasione – risponde principalmente a esigenze di tipo politico. Serve, insomma, a rinforzare la retorica di quei partiti della destra nazionalista ed euroscettica che proprio su questi temi, oggi, cercano di costruire il proprio consenso elettorale. In un momento particolarmente delicato della storia dell’Unione Europea, ci troviamo dinanzi a un bivio. Possiamo lottare affinché l’UE diventi, infine, un vero strumento di democrazia. Oppure possiamo cedere alle promesse di chi, sotto il vessillo della paura, culla l’idea della “fortezza Europa”: innalzando barriere, creando mostri.

Fonte dell’immagine in evidenza: Jasons World. (m-mediagroup.com)

Chi è Emmanuele Quarta

Italo-finlandese, classe '89. Laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali all'Università "Aldo Moro" di Bari, ha studiato Geopolitica all'Institut Français de Géopolitique (IFG) di Parigi e Analisi Politica all'Università Complutense di Madrid (UCM). Per East Journal si occupa prevalentemente di Russia e Bielorussia.

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