L’Ungheria si appresta a innalzare nuove barriere lungo i propri confini; è quanto è emerso, appena due settimane fa, nel corso di una conferenza stampa tenuta da Sándor Pintér, Ministro dell’Interno ungherese, in merito alla decisione dei paesi balcanici di chiudere, seppur parzialmente, le proprie frontiere, come risposta alla continua crisi dei profughi.
Sempre Pintér ha poi continuato sostenendo che, come conseguenza di una simile presa di posizione, «abbiamo deciso di dichiarare lo stato di crisi in tutto il paese»; si tratta di un provvedimento in grado di mobilitare un contingente addizionale di 1.500 soldati lungo le zone interessate. A corredo di tale misura, Pintér ha inoltre specificato che «saranno ulteriormente intensificati i controlli alla frontiera», suggerendo che entrambe le disposizioni vanno inquadrate nella cornice di terribile precarietà in cui i paesi dell’Europa Centro-Orientale si trovano a dover gestire una simile emergenza umanitaria.
A dar man forte alle parole del Ministro dell’Interno, quelle di Peter Szijjártó, Ministro degli Esteri d’Ungheria, il quale, come già più volte in passato, si è aspramente lamentato con le istituzioni europee per la situazione di perenne criticità in cui versa il quadrante meridionale dell’Unione, affermando che – a suo avviso – i confini europei più a sud «sono ancora spalancati per l’ingresso di centinaia di migliaia di migranti da Medio Oriente e Africa, cosa questa che incide negativamente sul futuro del sistema Schengen».
Un muro con la Romania?
Qualora il flusso di migranti e profughi provenienti dalla rotta balcanica dovesse cambiare direzione, optando per la Romania, al posto dei paesi balcanici, nel viaggio verso l’Europa Occidentale, Pintér ha ribadito, come avevano già fatto Szijjártó e lo stesso Viktor Orbán prima di lui, che l’Ungheria è pronta a erigere una barriera difensiva lungo il confine con la stessa Romania, nel tempo record di appena dieci giorni.
Si tratta di una dichiarazione che, seppur allarmante per tono e contenuto, non pone nulla di nuovo sul tavolo della questione; l’annuncio, infatti, sembra ricalcare quelli avanzati, mesi addietro, dai suoi colleghi di governo. Nel settembre scorso, ad esempio, nelle vicinanze della località di Kubekhaza, il governo ungherese aveva già fatto collocare segnali in legno atti a indicare il tracciato della nuova barriera e, a guardia dell’area, erano stati dispiegati persino poliziotti e personale militare.
Il sindaco di Kubekhaza, Robert Molnar, nell’esprimere il suo disappunto al riguardo, aveva all’epoca riportato ai mezzi d’informazione che la barriera si sarebbe verosimilmente estesa fino al fiume Maros. Il primo cittadino, in particolare, si era dimostrato furioso con Budapest poiché una simile decisione avrebbe costretto i suoi concittadini a compiere un viaggio di oltre 70 chilometri per raggiungere gli ungheresi che vivono a Beba Veche (Obeba), in Romania, una cittadina, in realtà, a pochi chilometri di distanza dalla stessa Kubekhaza.
Una posizione condivisa da tutto il gruppo di Visegrad
Chiara, seppur non esplicita, la posizione dei ministri dell’interno dei quattro paesi del Gruppo di Visegrad (Repubblica Ceca, Slovacchia e Polonia): l’emergenza migranti è ormai giunta al punto di non ritorno e non vale di certo la pena continuare a barricarsi nella prigione del “politicamente corretto”. La soluzione va ricercata nel sistema degli hot spot e nel favorire la nascita di una guardia di frontiera comune europea ma, soprattutto, nel netto rifiuto alle quote obbligatorie di rifugiati.
Milan Chovanec, ad esempio, Ministro dell’Interno ceco, ha sostenuto che: «i paesi V4 continuano a respingere le quote obbligatorie per la ricollocazione dei profughi» e che «negli hotspot i migranti devono essere detenuti finché non verrà verificata la loro identità». Szijjártó, infine, ha affermato che «il compito dell’UE non è garantire ai profughi un futuro in Europa ma aiutarli alla ripresa di una vita normale nei loro paesi di origine».
Fonte immagine: voxeurop.eu