TURCHIA: Un modello per il Mediterraneo delle rivoluzioni?

di Giuseppe Mancini

da Istanbul Avrupa

Il leader del Movimento della rinascita islamica (Ennahda), Rashid Al-Ghannushi, non ha dubbi: per la Tunisia post-rivoluzionaria, è la Turchia il modello da seguire. La Turchia del Partito per la giustizia e lo sviluppo (Akp), guidato dal premier Erdogan, che ha reso virtuosamente compatibili l’Islam e la democrazia, la tradizione e la modernità; un modello a cui possono ispirarsi tutti i popoli mediorientali una volta liberi da autocrati e dittatori. Tornato in patria dal ventennale esilio a Londra dopo la caduta di Ben Ali e già impegnato a costruire un’opzione di governo per il suo movimento-partito, Al-Ghannushi ha pubblicamente e ripetutamente manifestato apprezzamento per il ‘modello turco’ in interviste, direttamente al ministro degli Esteri Davutoglu in visita a Tunisi come presidente di turno del Consiglio d’Europa, poi a Istanbul dove si è recato per colloqui istituzionali e alla ricerca di sostegno. Dichiarazioni interessate, le sue?

Un recente studio condotto dalla Fondazione turca per gli studi economici e sociali (Tesev) in sette paesi arabi (Arabia saudita, Egitto, Giordania, Iraq, Libano, Palestina, Siria) più l’Iran – 2267 persone intervistate ad agosto e settembre – dimostra che la posizione tutta politica di Al-Ghannushi è ampiamente condivisa dall’opinione pubblica. “La percezione della Turchia in Medio oriente” offre numeri eclatanti: il 66% del campione ritiene che la Turchia possa essere un modello per altri paesi, il 73% che è diventata più influente nella regione, il 78% che dovrebbe svolgere un ruolo politico ancora maggiore; entrando nei dettagli, la Turchia può essere un modello in virtù della sua identità islamica (15%), della sua ascesa economica (12%), del suo governo democratico (11%), del suo appoggio per la causa palestinese (10%). Il 66% degli intervistati apprezza la capacità della Turchia di conciliare democrazia e Islam, l’85% ne ha un’opinione favorevole (+10% a un’analoga ricerca del 2009). La Turchia come garanzia di successo economico e politico, come modello accessibile e non alieno.

Ma al di là delle aspirazioni politiche di Al-Ghannushi e delle percezioni dell’opinione pubblica mediorientale, cosa s’intende esattamente per ‘modello’ nel dibattito frenetico – tra analisti e intellettuali – che imperversa sulla stampa turca e internazionale? Parlando dell’Egitto, il riferimento è più che altro al ruolo dell’esercito: che per decenni, in Turchia, si è fatto custode dell’eredità politica di Ataturk, della laicità contro presunti rischi di islamizzazione. Nei fatti, l’esercito turco – a più riprese responsabile di colpi di stato anche sanguinosi – col pretesto del rischio verde (o rosso, o nero a seconda dei casi), ha custodito più che altro privilegi di casta e ha impedito il fiorire della democrazia: imponendo invece, a più riprese, costituzioni fortemente illiberali e autocratiche – compresa quella attualmente in vigore, nata nel 1982 dal golpe del 1980.

E allora, questo modello turco? Esiste, è molto recente: ed è ancora in fase di dolorosa e a volte precaria elaborazione. Lo ha creato per l’appunto l’Akp, al potere del 2002: che anche in virtù della prospettiva europea ha messo in cantiere numerose e significative riforme democratiche (ma molto resta da fare, in relazione ad esempio alle libertà religiosa e di espressione), lottando apertamente contro le forze anti-democratiche radicate, esercito e magistratura su tutti; ha compiuto una profonda ristrutturazione economica, rinforzando una già avviata fase liberista e determinando una crescita record del paese che ha moltiplicato gli scambi commerciali con l’estero; ha applicato una politica estera costruttiva con tutti i vicini, alla ricerca di forme di solida partnership politica e commerciale.

L’Akp, diretto erede dei più radicali partiti d’ispirazione islamica fondati in 40 anni – e sempre disciolti dall’esercito o dalla magistratura – dal recentemente scomparso Necmettin Erbakan, è ormai una forza a pieno titolo democratica: grazie non già agli interventi armati dei militari, ma alla partecipazione diretta ai processi politici sperimentata nei momenti di apertura e poi perfezionatasi negli ultimi anni di governo. L’esperienza nelle istituzioni come antidoto al radicalismo, come fattore di evoluzione democratica. Una lezione per tutti i paesi del Medio oriente: non un modello da smontare ed esportare in contesti strutturalmente molto differenti – e Ankara, saggiamente, di esportazione della democrazia non vuole proprio saperne – ma un esempio vincente che offre speranze e suggerimenti da applicare liberamente.

Tenendo alla larga gli uomini con le stellette, evitando da parte occidentale la tentazione di interventi umanitari armati: e magari grazie a forme di concreta integrazione regionale con l’Unione europea. E con l’Unione per il Mediterraneo di Sarkozy e Mubarak mai decollata, lo spazio per un’iniziativa congiunta italo-turca è enorme.

Chi è Giuseppe Mancini

giornalista, storico, analista di politica internazionale. Vive a Istanbul: Ha collaborato con East Journal dall'aprile all'ottobre 2011

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2 commenti

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