Di lavoro, capitalismo, Russia odierna e migrazione si parla anche attraverso l’arte. Si é da poco concluso a Riga il festival internazionale di arte contemporanea Survival Kit che dal 3 al 20 settembre ha presentato un fitto programma di mostre, performance, workshop e dibattiti. Alla sua settima edizione si è ormai consacrato come evento importante per artisti ed operatori culturali degli stati baltici, dei loro vicini, e non solo. Promotore ne è il Centro per l’Arte Contemporaea Lettone (LCCA), impegnato dall’inizio degli anni ’90 a favorire un processo di integrazione tra espressioni artistiche e società. Scopo del festival è la ricerca di modelli creativi e alternativi di sopravvivenza (e resistenza) che riflettano sulle tendenze in atto a livello societario.
Il gioco di parole di quest’anno, Survival K(n)it, da non collegarsi unicamente ad un aspetto della cultura lettone, si riferisce al potenziale nascosto delle attività quotidiane, al grande impatto delle “piccole cose”. Il lavoro a maglia assume valore simbolico multiplo: rappresenta la creatività, il legame tra pubblico e privato, e sottolinea anche socializzazione e partecipazione. L’ex sede della biblioteca nazionale si é popolata di un’ampia selezione di opere, dove alcune raccontano la contemporaneità più urgente. Diversi artisti prendono posizione in maniera esplicita su avvenimenti politici internazionali o problemi socio-economici con declinazioni simili in luoghi diversi.
La poesia della serie fotografica “TrabZone” della turca Nilbar Güres affronta la condizione femminile nella regione di Trebisonda sul Mar Nero. Pur con ridotta visibilità sociale, le donne sorreggono famiglia e carico di lavoro domestico.
L’iraniano Dzamil Kamanger fa eco al serbo Ivan Grubanov alla Biennale di Venezia 2015. “I passaporti degli stati che non esistono più (Unione Sovietica, Jugoslavia, Repubblica Democratica Tedesca, Tibet)” rende protagonisti documenti ufficiali, che come le bandiere, sintetizzano un’identità nazionale. Quattro ricami a perline realizzati con tecnica tradizionale curda parlano anche dell’inesistente Stato curdo, a cui lo stesso Kamanger potrebbe appartenere.
Gli aeroplani di lamiera dell’estone Flo Kasearu prendono l’ispirazione da lavori di manutenzione del tetto di un edificio a Tallinn. “Uprising” simboleggia un’azione militare e una strategia di uscita da un paese, ovvero l’oltrepassare i confini per via aerea. Indirettamente siamo nel mondo della migrazione, e a livello più sottile affiora la tensione nei rapporti tra Russia e Occidente. Anche i movimenti quasi catartici del bielorusso Jura Shust e della sorella che sbattono un tappeto nel video “Echoes of War”, si interpretano come riflessione metaforica degli effetti dell’aggressione russa in Ucraina sui vicini. La Bielorussia assume infatti una posizione di pseudo-neutralità, restando per molti aspetti dipendente dalla Russia di Putin.
Il finto documentario “A Distance from Here” della pakistana Bani Abidi, con attori-aspiranti-migranti presso un’ambasciata straniera per un visto, tocca nel vivo la questione dell’immigrazione per motivi economici. “Untitled” ovvero i jeans bicolori del lituano Arturs Bērziņš, parte prodotti in Pakistan e parte nel suo studio, pongono domande relative alle dinamiche di mercato che creano prezzi e conseguentemente valori. Questi temi si ritrovano in “Creative Strategies” della croata Andreja Kulunčić, progetto multidisciplinare pluriennale. Auto-organizzazione di lavoratori e iniziative di cittadini in varie città della Croazia come risposta all’erosione della sicurezza sociale, alla disoccupazione e all’instabilità del mercato del lavoro. Oltre a una serie di testimonianze video, il pubblico può consultare un piccolo glossario per soluzioni alternative ai malcontenti creati dal capitalismo. Anche i lituani Katrina Neiburga ed Andris Eglitis si soffermano su simili riflessioni, e con una video-installazione hanno trasformano il piccolo cortile interno in un carosello di volti e suoni che si rincorrono, imitando quelli dei macchinari. Auto-sfruttamento come attività ludica dove il neoliberismo ha imprigionato il proletariato post-industriale.
Infine, nato nel 2012 con lo scopo di ampliare e rafforzare il dialogo tra artisti appartenenti a minoranze e la Scandinavia, lo Stitch Project riassume il senso del festival, aperto alla partecipazione di coloro che volevano ricamare la propria voce su dieci metri di lino, e stringere legami con altre persone.
Arte quindi come specchio dei tempi in cui si vive e linguaggio dell’azione; gli artisti come interpreti attenti delle dinamiche globali che si aprono al demos partecipante.
Foto: The Stitch Project, fold.lv