BALCANI: Dopo Vienna. A cosa serve il Processo di Berlino?

Il 27 agosto scorso i leader dei sei paesi dei Balcani occidentali e di sei stati membri UE si sono incontrati a Vienna per il secondo summit euro-balcanico del “processo di Berlino”, lanciato nel 2014 da Angela Merkel. Una iniziativa su cooperazione regionale e sviluppo economico ed infrastrutturale che aveva segnato l’ingresso della Germania come attore prevalente nella politica estera europea verso i Balcani, in concomitanza col progressivo ritiro del Regno Unito – non a caso, i due paesi che a fine 2014 hanno insieme ribaltato la politica europea verso la Bosnia ed Erzegovina. Al traino l’Austria, che si affaccia sulla regione e ne è da sempre sponsor, oltre ai due stati membri UE balcanici, Croazia e Slovenia; alla finestra Italia e Francia, troppo ingombranti per essere lasciate fuori ma ancora troppo poco interessate ad impegnarsi a fondo sul dossier.

L’Italia muta mentre si discute della crisi dei profughi

Già, perché l’anno scorso l’Italia si lamentò e non poco di non essere stata invitata a quella che appariva come la novità diplomatica del momento. Quest’anno, invitati, abbiamo mandato a Vienna il ministro degli esteri Paolo Gentiloni, che ha presenziato senza aprire bocca, e la sera stessa era già a Milano a parlare d’altro alla festa dell’Unità. Muti fino a tardi i suoi account social, muto sull’evento il sito della Farnesina, che riporta solo uno striminzito annuncio. E sì che, da programmi, i prossimi incontri dovrebbero essere a Parigi nel 2016 e a Roma nel 2017. Sappiamo che la politica estera italiana si risolve troppo spesso in un presenzialismo senza contenuti, ma in questo caso pare aver fatto proprio il dilemma di Ecce Bombo – “mi si nota di più se vado o se non vado?”.

Il programma del summit di Vienna è stato d’altronde preso d’ostaggio dalla crisi dei profughi siriani che proprio nelle settimane di agosto hanno attraversato in massa la rotta balcanica per dirigersi verso la Germania dove trovare rifugio. E lo stesso giorno del summit, 71 profughi sono stati trovati morti asfissiati in un camion non lontano da Vienna. Eppure, su questo né i leader europei né quelli balcanici hanno saputo offrire soluzioni. La Serbia s’è fatta onore di aver trattato i rifugiati in fuga in maniera umana e con efficienza, ma il problema si è presto spostato poco più su, al di là dell’inefficace barriera di filo spinato fatta stendere in tutta fretta da Viktor Orban lungo la frontiera.

Infrastrutture di energia e trasporti per lo sviluppo economico

Lo sviluppo economico è rimasto comunque il tema centrale dell’incontro. Sono stati approvati progetti infrastrutturali per energia e trasporti per 615 milioni di euro, di cui un terzo da fondi europei di pre-adesione (IPA), e il resto tramite prestiti delle banche europee d’investimento BEI e EBRD e della banca tedesca d’investimento KfW. Tra i vari progetti volti a creare un mercato unico per l’energia nei Balcani, anche il tratto tra Albania e Macedonia dei gasdotto TAP, diretto in Puglia. Sul fronte trasporti, saranno rifatti i ponti sulla Sava tra Bosnia e Croazia, la rete ferroviaria tra Kosovo, Serbia, e Macedonia, e il “treno blu di Tito” sulla linea Belgrado-Bar.

Dispute bilaterali e cooperazione giovanile

Il summit di Vienna ha visto anche la presentazione di un report del BiEPAG sulla questione delle dispute bilaterali, e la firma da parte degli stati candidati dei Balcani di una dichiarazione in cui i vari governi si impegnano “a non bloccare, o incoraggiare altri a bloccare, il progresso dei vicini nel cammino di integrazione europea”, ma a risolvere le proprie dispute bilaterali tramite negoziati o arbitrato, e a fare rapporto annuale sulla questione ai prossimi incontri del processo di Berlino. In maniera significativa, tale dichiarazione non è stata firmata da nessuno degli attuali stati membri UE – e d’altronde la Grecia non era neanche presente. E durante l’estate è anche finito in cattive acque l’arbitrato internazionale tra Slovenia e Croazia sulla questione del golfo di Pirano – non proprio un esempio brillante per gli altri stati balcanici di come due paesi membri UE possano risolvere le proprie dispute bilaterali.

Infine, dietro spinta della ONG Youth Initiative for Human Rights, i governi della regione si sono accordati per la creazione entro il 2016 di un Regional Youth Cooperation Office, per rafforzare i contatti e la conoscenza tra i giovani dei diversi paesi sull’esempio dell’ufficio franco-tedesco per i giovani, aperto nel 1963. Una maniera anche per cercare di disinnescare le forme più distruttive di competizione, come quelle affiorate ai match di calcio Serbia-Albania per le qualificazioni a Euro 2016. Non si capisce tuttavia perché tale ufficio per i giovani non sia stato posto sotto l’egida del Regional Cooperation Council, l’organizzazione regionale di cooperazione dei Balcani con sede a Sarajevo.

Ma non è a Vienna che vengono risolte le questioni aperte per l’integrazione europea dei Balcani

Non sono mancati momenti più leggeri, con la partita a calcetto tra i vari ministri degli esteri – vinta dalla squadra dei paesi candidati, e in cui un ministro è riuscito anche a rompersi un braccio – o la registrazione di una puntata del talk show Okruženje con la partecipazione dei premier albanese Edi Rama e serbo Aleksandar Vučić, in cui il premier serbo ha una volta di più scaricato Dodik affermando che il più grande problema per i Balcani non è il Kosovo ma la Republika Srpska per la funzionalità della Bosnia-Erzegovina. E’ stato anche riportato positivamente come Vučić abbia parlato, alla prima conferenza stampa, a nome dei governi di tutti i Balcani, o come il summit abbia visto per la prima volta tutte e sei le bandiere fianco a fianco, Kosovo compreso.

Ma non è a questi summit che vengono prese le decisioni fondamentali o trovati gli accordi bilaterali. Dal lato positivo, solo un paio di giorni prima, il 25 agosto, Serbia e Kosovo firmavano a Bruxelles quattro accordi bilaterali sulla scorta dell’accordo di normalizzazione delle relazioni del 2013. Potrà così prendere finalmente forma l’Associazione delle municipalità a maggioranza serba del Kosovo, così come esso potrà finalmente avere un prefisso internazionale unico, +383; sarà inoltre garantita la fornitura d’energia, e la libertà di movimento sul ponte di Mitrovica. Dal lato negativo, invece, proprio il 26 agosto la Croazia si opponeva per supposti “motivi sanitari” alla liberalizzazione dell’export di latte bosniaco verso l’UE, facendola sospendere fino al 16 settembre, dopo che per mesi le compagnie agroalimentari e le istituzioni bosniache avevano lavorato con l’UE per rispettarne i criteri di qualità. Una mossa all’ultimo momento che mette in dubbio la buona volontà di Zagabria di aiutare il vicino, e che fa temere che sulla pelle della Bosnia si possa giocare buona parte della ventura campagna elettorale in Croazia.

A cosa serve il processo di Berlino? Le stranezze di un formato ibrido

Continua tuttavia a non essere chiaro a cosa effettivamente serva il processo di Berlino e i suoi incontri annuali di follow-up. Se la cooperazione regionale procede soprattutto in altre sedi, gli investimenti economici privati continuano a latitare e non sarà un vertice politico a cambiare la situazione. Se la politica europea di allargamento è stata “rinazionalizzata“, complice la maggiore attenzione dei governi degli stati membri al dossier dopo il 2004, il vertice annuale del processo di Berlino potrebbe aiutare a dare coerenza e una direzione politica al comportamento degli stati membri nel Consiglio UE, e a tenerne alta l’attenzione negli anni che precederanno le future adesioni dei paesi dei Balcani – ma non può in questo sostituirsi alla Commissione stessa.

Se questi vertici sono pensati soprattutto come un momento di incontro tra leader dei Balcani, sarebbe bene che essi si tenessero all’interno della regione – anche solo per dare un beneficio all’economia locale – e che fossero gestiti dal Regional Cooperation Council. Se invece sono intesi come un momento di incontro e scambio tra leader balcanici e dei paesi UE, il formato attuale non può bastare: sono troppo pochi i paesi UE coinvolti – basti pensare all’assenza della Grecia. Servirebbe in tal caso un formato diverso, magari attraverso una riunione del Consiglio europeo a 28+6+1, aperta anche ai leader dei sei paesi candidati dei Balcani – e alla Turchia. Chissà che per il 2017, quando il summit del “processo di Berlino” si terrà a Roma, l’Italia non si presenti con una propria proposta in questo senso.

Chi è Davide Denti

Dottore di ricerca in Studi Internazionali presso l’Università di Trento, si occupa di integrazione europea dei Balcani occidentali, specialmente Bosnia-Erzegovina.

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Un commento

  1. Come sempre nella storia, la Serbia ha sempre “offerto del pane” a che ne ha bisogno! Senza aspettarsi ringraziamenti. Ma prendere colpi allo stomaco….come fece l’ ingrata Albright!

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