CROAZIA: Il ricordo di “Oluja”, la tempesta che sconvolse i Balcani

Il 5 agosto del 1995 le forze speciali dell’esercito croato rientravano in possesso dei territori sottratti a Zagabria dai secessionisti della Krajina, che sin dal 1991 aveva rappresentato, dal punto di vista militare, il casus belli della guerra in Croazia. Quest’operazione militare aveva il nome di “Oluja“, ovvero “tempesta”, ed ebbe il merito di cambiare in modo definitivo il futuro della regione.

L’operazione

Dal punto di vista militare, Oluja aveva lo scopo di ristabilire il controllo croato su circa il 18% del proprio territorio che dallo scoppio della balvan revolucija nel ’91 (insurrezione dei separatisti serbi caratterizzata da posti di blocco stradali utilizzando tronchi d’albero – balvan), non era più amministrato dalle autorità di Zagabria.

Dal punto di vista dell’interesse nazionale e politico, invece, un altro scopo dell’operazione era lo sradicamento violento ed immediato di parte della popolazione civile di Croazia, che con un ultimatum di 48 ore, dovette abbandonare per sempre le proprie case secolari. Si stima che oltre 200 mila persone furono costrette, dall’oggi al domani, ad abbandonare le loro proprietà sotto la minaccia dei soldati del generale Ante Gotovina, assolto due anni fa all’Aja dall’accusa di crimini di guerra. Decine di migliaia di famiglie dovettero attraversare il confine, per la Bosnia-Erzegovina e poi la Serbia. Circa 600 furono invece i morti ammazzati, molti dei quali anziani, impossibilitati a muoversi e, soprattutto, incapaci di comprendere le ragioni che li obbligavano ad abbandonare quella terra, dopo 3 secoli di storia di convivenza. Ad oggi, l’esodo dalla Krajina viene considerata una delle più grandi operazione di pulizia etnica dalla Seconda Guerra Mondiale.

La fine di una secolare convivenza

Se fino alla dichiarazione d’indipendenza di Zagabria nel giugno del ’91 le comunità serbe di Croazia avevano sempre rappresentato parte integrante della cittadinanza (il 15% circa), la fine della guerra impose una svolta che nulla aveva a che fare con i trascorsi storici della regione. Dalla fine della guerra sono pochi gli esuli serbi tornati nelle proprie case, a causa soprattutto di difficoltà burocratiche dovute anche all’usurpazione di molte dello loro vecchie case. Secondo l’ultimo censimento croato la minoranza serba è al 4,5%.

Le origini dei primi insediamenti serbi nella regione risalgono al 1690, nel corso della guerra austro-turca (1683-1699), per via degli esodi di massa da Serbia e Bosnia-Erzegovina, sotto controllo ottomano. Queste comunità si stanziarono in territorio asburgico in quella che venne definita Vojna Krajina, ovvero “confine militarizzato”, che costitutiva appunto una barriera militare contro espansioni ed incursioni ottomane. In altre parole, alle comunità serbe veniva offerta protezione dall’impero austriaco in cambio della difesa del territorio dall’impero ottomano. Questa dinamica bellica era tuttavia destinata a portare alla convivenza tra cattolici e ortodossi sullo stesso territorio, come altrove nella regione.

Negli anni, questa convivenza si tradusse nella necessità di trovare una più larga intesa ed unione tra serbi e croati nella regione, e non è un caso se proprio in Croazia iniziarono i primi movimenti culturali e politici in questa direzione già nella prima metà dell’800, prima sotto il nome di illirismo e successivamente di jugoslavismo. Allo stesso modo, fu proprio nei territori della Kraijna che si consolidò il movimento partigiano durante la Seconda Guerra Mondiale (fu a Sisak e in altre cittadine della Dalmazia che nacquero le prime brigate in Europa impegnate nella resistenza al nazi-fascismo). Tale lotta congiunta avrebbe poi fatto da base comune per i futuri piani culturali e politici di “bratstvo i jedinstvo“, unione e fratellanza, principio cardine della Jugoslavia socialista.

Uno dei motivi che spingerà all’insurrezione serba contro il secessionismo di Zagabria degli anni ’90 sarà anche la fine di questa politica nazionale sul territorio croato. La costituzione croata d’epoca jugoslava, infatti, definiva fin dal primo articolo che “la Repubblica Socialista di Croazia è lo stato nazionale del popolo croato, lo stato dei serbi di Croazia e lo stato delle nazionalità che in essa vivono.” Dal ’91 in poi, questa disposizione verrà eliminata, relegando i serbi di Croazia allo status di minoranza e non più di popolo costituente.

Gli anni della guerra che seguiranno, vedranno, da una parte e dall’altra, la ripetizione di quegli orrori che la lotta congiunta di serbi e croati aveva eliminato nella Seconda Guerra Mondiale, accompagnati dall’uso della stessa retorica, che identificava i croati come “ustascia” e i serbi come “cetnici”.

Oluja, la festa e la sua interpretazione storica

La Croazia che nacque venti anni fa ha fatto del ricordo di Oluja una festa nazionale, in quanto “momento fondamentale per la storia della Croazia odierna” come ha commentato Vesna Pusić, ministro degli esteri croata, sostenendo che “Oluja si festeggia per l’unificazione territoriale croata e non per le vittime”.

Tuttavia, sembra legittimo chiedersi se sia più corretto festeggiare un episodio di pulizia etnica, come momento fondante della storia di un paese, oppure se sia più corretto perseverare nell’esaltazione delle operazioni militari piuttosto che civili e diplomatiche per la fine delle guerre. Inutile dire che il paragone con il ricordo della fine della prima e della seconda guerra mondiale pare azzardato, sia per la natura dei due conflitti – globali e di aggressione le due guerre mondiali; e civili e fratricide quelle jugoslave -, che per le loro conseguenze – la fine dell’occupazione e del soggiogamento per i primi; e l’eliminazione di una componente civile dopo secoli di convivenza nel caso della ex-Jugoslavia.

Per celebrare il ventennale la Croazia ha dedicato una parata militare a Zagabria il 4 agosto e una cerimonia di festa della librazione il 5 agosto a Knin, città principale della Kraijna. Tuttavia, nonostante il dispendio di risorse e di organizzazione per la cerimonia cara alla lobby dei veterani di guerra, ad essa non hanno partecipato molti degli alleati e sostenitori della causa indipendentista della Croazia, Germania e Stati Uniti in primis. D’altro canto, a Belgrado, dove la stessa data rappresenta “il giorno del ricordo delle vittime serbe di Krajina“, la partecipazione delle delegazioni nazionali alla cerimonia di Oluja verrà considerata “un’azione contro la Serbia e il popolo serbo”, come ha dichiarato il ministro degli esteri serbo Ivica Dačić.

Questa giornata sarà dunque destinata a mantenere interpretazioni diverse circa la guerra e le sue conseguenze. Come afferma il professore di filosofia dell’Università di Zagabria, Žarko Puhovski, il nazionalismo serbo e croato, in queste circostanze, è accomunato dal raccoglimento nazionale circa il martirio da un lato e l’eroismo dall’altro e dalla condanna verso quei serbi e croati definiti “traditori”, in quanto critici se non addirittura “revisionisti” rispetto al pensiero comune del proprio gruppo di appartenenza.

Come scrive Ljudmila Cvetković, un esempio di questa tendenza è fornito dal caso del regista croato Oliver Frljić, bersaglio di critiche e accuse sui media per aver organizzato, in occasione del ventennale, una rappresentazione teatrale a Rijeka che avesse come oggetto i racconti di 5 donne di diversa appartenenza nazionale ma accomunate dalla tragica esperienza della guerra. Mentre allo stesso modo, a Belgrado, Sonja Biserko, presidente del Comitato Helsinki per i diritti umani in Serbia, è stata oggetto di simili linciaggi mediatici per aver sempre condannato la politica e la retorica serba degli anni ’90.

D’altro canto, le diverse interpretazioni circa gli episodi bellici degli anni ’90 non sono che una dimostrazione dell’assenza di un reale processo di riconciliazione, ancora preda e ostaggio della stessa classe politica che portò alle guerra in Jugoslavia; nonché di una verità storica condivisa, circa le responsabilità, i numeri e le reali considerazioni dei vantaggi derivanti da una guerra che ha unito con la forza, su base mono-nazionale, popoli caratterizzati da una secolare convivenza multinazionale.

Foto: “La guerra è finita, andate a casa”. Adesivo di contestazione delle celebrazioni del ventennale di Oluja. Zagabria, agosto 2015. @PlaceSoft, Twitter

Chi è Giorgio Fruscione

Giorgio Fruscione è Research Fellow e publications editor presso ISPI. Ha collaborato con EastWest, Balkan Insight, Il Venerdì di Repubblica, Domani, il Tascabile occupandosi di Balcani, dove ha vissuto per anni lavorando come giornalista freelance. È tra gli autori di “Capire i Balcani occidentali” (Bottega Errante Editore, 2021) e ha firmato due studi, “Pandemic in the Balkans” e “The Balkans. Old, new instabilities”, pubblicati per ISPI. È presidente dell’Associazione Most-East Journal.

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2 commenti

  1. Il 20 novembre del 1991, in occasione della visita all’ospedale di Vukovar, quale addetto militare a Belgrado, rivolsi ad una crocerossina serba la seguente domanda: “Pensa che un giorno serbi e croati potranno convivere come in passato?”. Risposta: ” no, mai più”. Questo il mio commento al termine della visita : “Vukovar dovrebbe rimanere così come è, quale monumento alla cattiveria e stupidità umana”.

  2. I serbi vivono in Croazia da ben prima del 1690!!
    I 3 monasteri ortodossi in dalmazia sono stati costruiti nel 14° secolo, mentre le prime chiese un secolo dopo.

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