BOSNIA: La politicizzazione di Srebrenica e il negazionismo

E’ possibile essere un “cacciatore di nazisti”, eppure negare i genocidi altrui? Evidentemente sì; è il caso di Efraim Zuroff, direttore della sede di Gerusalemme del Simon Wiesenthal Centre (SWC). Zuroff, 66 anni, israeliano di origine statunitense, è sempre più spesso invitato a Belgrado e citato dai mezzi di informazione serbi. La ragione? A differenza degli altri direttori dei Centri Wiesenthal, oltre che di due diverse Corti internazionali, Zuroff non ritiene che Srebrenica sia stato un genocidio.

Proprio attorno al ventennale di Srebrenica, questo giugno, Zuroff è intervenuto più volte sui media serbi. Prima per dichiarare, su Politika, che è assurdo fare paragoni fra l’Olocausto, il genocidio in Ruanda e i crimini commessi a Srebrenica.”Tali paragoni sono orribili”, ha dichiarato. Il Ruanda e l’Olocausto non sono la stessa cosa, e benché i crimini occorsi in Ruanda siano più simili all’Olocausto di quelli di Srebrenica, “né il Ruanda né Srebrenica rappresentano uno sterminio di massa su scala industriale”. Anzi, afferma Zuroff, non è sicuro che gli eventi di Srebrenica costituiscano un genocidio, e “per quanto ne so ciò che è avvenuto nella cittadina bosniaca non rientra nella descrizione o definizione di genocidio. Ritengo che la decisione di definire Srebrenica un genocidio sia stata presa per ragioni politiche“. Zuroff si è poi ricreduto sul Ruanda (“nessun dubbio, è genocidio“) ma non su Srebrenica.

Voci ebraiche sul genocidio di Srebrenica

La posizione di Zuroff è isolata tra le voci ebraiche sul genocidio di Srebrenica e all’interno dello stesso SWC, per la grandissima parte consapevoli del riconoscimento internazionale del massacro di Srebrenica come genocidio da parte tanto del Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia (ICTY) quanto della Corte Internazionale di Giustizia (ICJ). Durante la guerra, lo stesso Simon Wiesenthal aveva riconosciuto nelle azioni dei miliziani serbobosniaci il marchio “della stessa scuola di bestialità” dei nazisti, e si era poi speso presso Bill Clinton perché i responsabili dell’eccidio, Karadzic e Mladic, fossero consegnati alla giustizia. Ugualmente, gli ebrei americani e l’associazione umanitaria degli ebrei di Sarajevo, La Benevolencija, erano stati tra i primi a portare aiuto ai superstiti di Srebrenica. E uno dei leader della rivolta del ghetto di Varsavia, Marek Edelman, arrivava ad affermare nel 1993 che “sfortunatamente, l’Olocausto non si è fermato con il ghetto. Va avanti.”

Così oggi, sul Jerusalem Post, il superstite della Shoah Menachem Rozensaft scrive: “Rispettosamente ma nella maniera più enfatica mi trovo in disaccordo con l’ambasciatore [russo, ndr] Churkin e con Efraim Zuroff… Non posso in coscienza condannare i perpetratori del genocidio in cui sono morti mio fratello e i miei genitori [a Birkenau, ndr] senza condannare anche i perpetratori di tutti gli altri atti di genocidio, incluso quello che ha avuto luogo a Srebrenica”. E anche Mark Weitzman, direttore degli affari governativi del Simon Wiesenthal Centre il 10 luglio si univa all’appello dell’ONU a riconoscere Srebrenica come genocidio: “L’atto di commemorare è di importanza vitale. Poiché solo ricordando in maniera attiva e accurata i precedenti fallimenti nella prevenzione del genocidio possiamo iniziare a tirare lezioni appropriate per l’oggi”. E una lettera aperta di protesta era stata inviata già nel dicembre 2013 dal Congress of North America Bosniaks, un’associazione della diaspora bosniaca negli Stati Uniti, a seguito delle prime dichiarazioni negazioniste di Zuroff in cui negava vi fosse stato un genocidio in Bosnia Erzegovina.

Eppure Zuroff prosegue nella sua campagna. In Serbia, in particolare, è ben visto dalle autorità e dal pubblico per il suo impegno per la memorializzazione del campo di concentramento di Staro Sajmiste, a Belgrado, e per il suo spendersi per il ricordo del genocidio di serbi ed ebrei  a Jasenovac da parte del regime fantoccio filonazista dello Stato Indipendente di Croazia (NDH). Zuroff si è anche dichiarato ferocemente contrario alla canonizzazione del vescovo croato Alojzije Stepinac, che considera collaborazionista, mentre ha minimizzato la riabilitazione da parte di Belgrado del leader cetnico Draza Mihailovic, anch’egli collaborazionista dei nazisti.

Srebrenica, un genocidio sempre più politicizzato?

La posizione di Zuroff, che riprende tutti i tòpoi della pubblicistica serba volta alla minimizzazione e relativizzazione del genocidio, è probabilmente il sintomo della sempre maggiore politicizzazione a cui va incontro la memoria divisa dei fatti di Srebrenica.

Srebrenica è oggi lieu de mémoire non solo per le famiglie delle più di 8.000 vittime. Già dalla fine degli anni ’90, e ancora più a partire dall’apertura del complesso memoriale di Potočari nel 2003, e dalle concomitanti sentenze internazionali sul genocidio del 2004 e del 2010, Srebrenica è diventata colonna portante delle politiche di nazionalizzazione (nation-building) della comunità bosgnacca (bosniaco-musulmana), la principale delle tre comunità socio-politiche di Bosnia. Dietro spinta del partito conservatore SDA, già al governo durante l’assedio di Sarajevo, e con l’acquiescenza degli altri partiti di riferimento dei bosgnacchi, la memoria di Srebrenica si è caricata di senso politico. Prova ne siano gli slogan “don’t forget Srebrenica, in inglese, sui muri di varie città bosniache e sugli striscioni negli stadi. Srebrenica, e il genocidio, sono diventate strumento di delegittimazione dell’entità serbobosniaca, la Republika Srpska, oggi integrata nell’ordinamento costituzionale bosniaco, per via della sua origine genocidaria, e simbolo del progetto politico di una Bosnia di nuovo unitaria e senza entità etnopolitiche al suo interno.

Ugualmente, per via delle connessioni tra la Bosnia e il resto del mondo musulmano, il genocidio di Srebrenica è venuto ad essere, al di fuori del paese, il genocidio dei musulmani, “l’Auschwitz dei musulmani d’Europa” nelle parole dell’ex leader della Comunità islamica bosniaca, Mustafa Cerić. Da opporre, assieme alla Nakba, in maniera strumentale, al genocidio ebraico utilizzato come elemento di legittimazione dello stato di Israele. Come scrive Rodolfo Toè, il richiamo alla fratellanza tra i “due popoli martiri” (bosgnacchi e palestinesi) si è concretizzato in una sempre maggiore mobilitazione a favore della causa palestinese in Bosnia, con le – assolutamente pacifiche – partecipate marce per Gaza e manifestazioni del giorno di Al Quds (Gerusalemme).

Non stupisce quindi, in fondo, che un israeliano politicamente conservatore come Zuroff possa trovare conforto nelle tesi della pubblicistica serba che si oppongono al riconoscimento di Srebrenica come genocidio, come stabilito da due diverse corti internazionali. Il perdurare dell’uso strumentale della memoria del genocidio per fini politici, interni (di coesione della comunità politica bosgnacca e delegittimazione della Republika Srpska) così come esteri (di equalizzazione delle posizioni nel conflitto israelo-palestinese), fa temere che ci voglia davvero ancora molto tempo prima che diventi possibile, per le diverse parti, accettare l’esistenza di memorie diverse, ascoltarsi a vicenda, e riconoscere la reciproca sofferenza – i passi necessari per arrivare ad una effettiva riconciliazione nella mancanza di una memoria unica condivisa.

Foto: @eatps_, twitter

Chi è Davide Denti

Dottore di ricerca in Studi Internazionali presso l’Università di Trento, si occupa di integrazione europea dei Balcani occidentali, specialmente Bosnia-Erzegovina.

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Un commento

  1. Nel 1991 la municipalità di Srebrenica contava circa 37.000 abitanti: 75% musulmani, 23% serbi e 2% croati. Per completezza di informazione sarebbe interessante conoscere l’entità dell’etnia serba all’atto della strage dei musulmani ad opera di Mladic (macellaio per noi, eroe per i serbo-bosniaci).

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