Milošević a Gazimestan, 28 giugno 1989.

Vidovdan, tra mito e sangue dal 1389 a oggi (parte seconda)

(Seguito della Prima parte)

Se quel lontano 15 giugno 1389 (28 giugno secondo il calendario riformato gregoriano, entrato in vigore solo nel 1582), giorno di San Vito, segnò una volta e per tutte la strada spirituale del popolo dei cieli, esso continuò spesso a rappresentare, nei secoli a venire, significativi eventi storici nella vita secolare della Serbia e non solo: il 28 giugno 1914, un colpo esploso dal nazionalista serbo bosniaco Gavrilo Princip sul Ponte Latino di Sarajevo colpì a morte l’arciduca Francesco Ferdinando d’Austria, in quella che si rivelò poi la miccia della Prima guerra mondiale; guerra a cui fu posta fine con il Trattato di Versailles, siglato il 28 giugno 1918. Il 28 giugno 1948, il Cominform, nella rappresentanza di Zdanov, Malenkov e Suslov, condannò la deviazione del Partito comunista jugoslavo rispetto alle linee sovietiche, segnando la definitiva e pericolosa rottura fra Stalin e Tito. Il 28 giugno 1989, per il 600° anniversario della battaglia di Kosovo Polje, Slobodan Milošević tenne di fronte a un milione di serbi raccoltisi sulla Piana dei Merli lo storico “discorso di Gazimestan” (dal nome del monumento eretto in memoria della battaglia), nel quale, ricordando il 1389, ebbe a sottolineare l’importanza per i serbi di unirsi per lottare e ottenere quei diritti che a suo dire, per le divisioni interne al popolo serbo, gli erano stati fino ad allora preclusi: per molti un presagio della guerra imminente. Dodici anni più tardi, il 28 giugno 2001, Milošević, arrestato nel marzo di quell’anno, verrà spedito su disposizione del premier Djindjić all’Aja.

Certo, non c’è nulla di divino nel ricorrere incessante di questa data, alcune sono semplici coincidenze, altre scelte simboliche, ma ciò che è sempre sfuggito agli osservatori occidentali, e reso invece manifesto ad esempio da questo eterno ritorno della data di Vidovdan, è la concezione serba della storia, che non segue un contesto temporale lineare, secondo un incessante flusso in perenne mutamento, ma si muove all’interno di una dimensione epica sempiterna e immutabile. È per questa ragione, ad esempio, che la sconfitta nella battaglia di Kosovo Polje del 1389 sa bruciare nelle coscienze individuali con la stessa forza che se fosse accaduta nel 1989. Per questo i bombardamenti NATO del 1999 non sono affatto diversi da quelli del 1944 – gli Americani sono sempre gli stessi; o ancora, l’uccissione dei bosgnacchi nella guerra in Bosnia non è altro che l’eroica lotta del popolo serbo e cristiano contro l’asservimento e la dominazione ottomana, così come prima del XIX secolo. Potremmo parlare di un disturbo psicologico, dell’incapacità collettiva per il popolo serbo di distanziarsi, elaborare le proprie tragedie e sconfitte del passato, ma anzi la tendenza a celebrarle e viverle come fossero accadute ieri l’altro.

Questa staticità di lettura ed incapacità di relazionarsi con un mondo esterno dinamico e ben diverso dall’idea che i serbi hanno di esso è, per certi versi, alla base di quella cocciuta, spesso illogica presa di posizione rispetto alle richieste del mondo: è la forza di carattere che scaturisce da quel misto di rabbia e sentimento, da un senso di persecuzione e isolamento, oltre che dall’idea di essere migliori degli altri (tutto il mondo ci odia perché…, è stato ed è ancora oggi uno dei leitmotiv favoriti quando qualcosa non va). Non a caso abbiamo più volte scelto l’aggettivo “epico”, in quanto è un tratto caratteristico del poema epico la caricatura ed esasperazione netta dei sentimenti, una carica emotiva non chiaramente motivata, e per questo illogica, ma che funge da motore per una forza sovrumana che ne muove i personaggi. Se gli osservatori occidentali avessero, ad esempio, colto la tragicità dell’epos serbo, forse nel 1999 non si sarebbero stupiti del fatto che un paese prostrato e isolato si mantenesse fermo anche di fronte alla minaccia concreta di un intervento militare della NATO, e che poi questo intervento si sarebbe protratto per 78 giorni di incessanti bombardamenti, senza risultati apparenti né rimostranze della popolazione civile serba contro il proprio governo, più vicina in realtà a Milošević in quei giorni di quanto non fosse mai stata.

Queste sono anche, infine, le ragioni per le quali la perdita del Kosovo viene vissuta in maniera tragica, in quanto, come scriveva Giuseppe Zaccaria, inviato de la Stampa, il territorio per un serbo non rappresenta una proprietà ma l’identità stessa, la vita. Il territorio per un serbo è il luogo di espressione e libertà da difendere fino all’ultima stilla di sangue. La rinuncia al Kosovo, per quanto comprovata nei fatti, non potrà mai pienamente venire metabolizzata in quanto per i serbi tale ammissione comportorebbe un tradimento nei confronti dei loro sentimenti di eroismo, di vicinanza e lealtà ai propri avi ed al sangue versato quel lontano 15 giugno del 1389, che ancora oggi pesa, e sul quale sentono distintamente di aver fondato sia la propria Chiesa che il proprio ruolo storico su questa terra, in una regione coabitata da piccoli popoli e grandi miti. L’incapacità di accettare la perdita del Kosovo e le catastrofiche e irreparabili scelte degli anni ’90, assumono sotto questa luce la forma di un meccanismo autodifensivo, che a costo di mantenere la Serbia immobile e lontana dall’Europa serve a preservare intatta la salute mentale dei suoi abitanti, che non potrebbero mai accettare di scoprire come i dolori e le sconfitte degli ultimi sette secoli siano stati semplicemente sofferti e sopportati invano, se non, addirittura, per propria colpa.

Chi è Filip Stefanović

Filip Stefanović (1988) è un analista economico italiano, attualmente lavora come consulente all'OCSE di Parigi. Nato a Belgrado si è formato presso l’Università commerciale Luigi Bocconi di Milano e la Berlin School of Economics, specializzandosi in economia internazionale. Ha lavorato al centro di ricerche economiche Nomisma di Bologna e come research analyst presso il centro per gli studi industriali CSIL di Milano. Per East Journal scrive di economia e politica dei Balcani occidentali.

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4 commenti

  1. Bellissimo articolo Stefan.
    Ma permettimi: hai dimenticato altre tre occasioni in cui “Vidovdan” ha un importanza storica rilevante. La prima, è nel 1919 quando sul nascere del Regno di Serbi, Croati e Sloveni viene adottata la nuova Costituzione, detta appunto “Costituzione del Vidovdan”, e che darà adito agli indipendentisti croati di fomentare l’odio che porterà alle formazioni ustascia. Secondo, nel ’90, un progetto di revisione di Costituzione della Croazia elimina il riferimento alla popolazione serba, come popolo costituente la “repubblica ribelle”…come poi e’ andata a finire lo sappiamo tutti. E infine, forse meno importante e più casuale, nel 2006, l’ONU riconosce l’indipendenza del Montenegro, da sempre considerato come facente della “Serbia Antiqua”.
    Ad ogni modo, ti rinnovo i complimenti
    Giorgio

  2. Grazie dei complimenti, Giorgio.
    Non ho dimenticato le date che citi, ho propositamente sorvolato per non appesantire l’articolo, lasciando solo quegli eventi più familiari ai lettori nostrani: mi interessava più il significato di fondo che la completezza storica. Bene hai comunque fatto a ricordare anche il resto.

    Saluti,
    Filip

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