SERBIA: Vidovdan, tra mito e sangue dal 1389 a oggi (parte prima)

Negli ultimi decenni del XIV secolo, la Serbia attraversava una crisi politica strutturale, a seguito dell’indebolimento della dinastia dei Nemanjić, che aveva ininterottamente guidato e accresciuto il regno serbo sin dalla fine del XII secolo. Lo sviluppo culturale ed economico di quel periodo, è ancora oggi perfettamente testimoniato dalle molte chiese e monasteri edificati nel corso degli anni a maggior gloria del Signore e della Chiesa ortodossa serba, sia in Serbia che nel Kosovo, adornati da magnifici cicli d’affreschi che ci parlano di una società cortese fiera e civilizzata, a cavallo tra occidente e Bisanzio. Con la morte nel 1355 di Stefan Uroš IV Dušan, incoronato a Skopje nel 1346 “zar dei serbi e dei greci”, il vasto territorio dell’impero, estesosi a seguito di lunghe conquiste dal Danubio al golfo di Corinto, sotto la guida del figlio, Uroš V “il Debole”, si frantumò in una serie di principati più o meno assoggettati al potere centrale. Alla morte di quest’ultimo, sul finire del 1371, la Serbia rappresentava ormai il ventre molle attraverso il quale i turchi, che risalivano lungo la penisola Balcanica,  si muovevano intenzionati a conquistare spazio in Europa.

È questo il contesto storico che si presenta nel 1389, quando Lazar Hrebeljanović, principe della Moravia, la più forte delle province serbe sopravvissute all’impero e rimasta autonoma al vassallaggio ottomano (destino a cui si erano invece piegati diversi altri principi serbi e bulgari), decise di affrontare l’esercito del sultano Murad I sul campo. Le truppe del sultano si stavano spostando già dall’anno precedente, a seguito di due sconfitte contro le forze serbe e bosniache, per le regioni dell’odierna Bulgaria meridionale, e nella primavera del 1389 si mossero attraverso la Macedonia e la piana del Kosovo, già allora crocevia di vitale importanza per tutti gli scambi sulla Penisola balcanica.

Di cosa accadde quel 15 giugno 1389 non ci restano sicure fonti storiche, ma più i cicli epici della tradizione orale serba. Sappiamo per certo che le forze cristiane raccolte sotto la guida di Lazar, di cui faceva parte anche un importante contingente inviato dall’alleato e re di Bosnia Tvrtko I, erano numericamente inferiori a quelle ottomane, le cui file erano rinfoltite da circa 8000 uomini forniti dai vassalli serbi e bulgari turcizzati: le stime si muovono tra i 12-30.000 soldati cristiani contro 27-40.000 soldati della Sublime porta. I due eserciti si affrontarono nella Piana dei Merli (Kosovo Polje), il 15 giugno 1389, in una cruenta battaglia protrattasi per tutto il giorno e che portò all’annientamento del nucleo forte di entrambi gli schieramenti. Quello che di per sé si rivelò uno scontro sanguinoso ma paritario, senza vinti né vincitori, segnò la fine dell’indipendenza serba, che aveva logorato sul terreno tutte le forze di cui disponeva, lasciando sguarniti i propri confini, mentre l’impero ottomano era in grado di rifornirsi di truppe fresche da oriente. Nella battaglia persero la vita sia il principe Lazar che il sultano Murad I, unico caso nella storia di un sultano morto sul campo di battaglia. La sconfitta nella Battaglia del Kosovo segnò il destino della Serbia, venendo il regno man mano annesso nei decenni a seguire ai territori ottomani, e segnando l’inizio di un servaggio plurisecolare che lasciò la Serbia isolata dall’occidente.

Secondo la tradizione epica serba, il giorno della Battaglia del Kosovo, il giorno di S. Vito (Vidovdan), un falco si levò da Gerusalemme, tenendo nel becco una rondine, e raggiunse in volo l’accampamento del principe Lazar. Quel falco era in realtà Sant’Elia, quella rondine un messaggio di Dio. Il Signore lasciava al principe serbo la scelta tra due vittorie: una terrena, contro le truppe del sultano infedele, l’altra nel regno dei cieli, a testimonianza col proprio sacrificio della santità del popolo serbo. Comprendendo bene quanto le glorie terrene siano effimere rispetto alla magnificenza dei cieli, Lazar optò per la seconda via. Così facendo, egli fondò in Kosovo una chiesa poggiante non su pietre di marmo, ma seta pura e stoffa cremisi, ovvero non sull’opulenza terrena, bensì sul sacrificio e sul sangue di quegli eroi serbi sacrificatisi per la maggior gloria del proprio popolo – nebeski narod, “popolo dei cieli”, come si sarebbe per l’appunto autoproclamato nei secoli a venire. L’esaltazione scaturita dal sottile miscuglio di uno struggente rimpianto per la rinuncia al proprio ruolo storico nel mondo, unito alla consapevolezza della propria redenzione, così simile a quella del Cristo, sacrificatosi innocente per la maggior gloria del Signore, non abbandonò mai l’immaginario nazionale serbo, ed è ancora oggi questo senso di rivalsa e riscatto che non permette al popolo serbo di accettare idealmente la perdita del Kosovo, proprio là, in quella piana nella quale, quasi sette secoli or sono, si decise doppiamente il suo destino, terreno e spirituale.

(Segue…)

Chi è Filip Stefanović

Filip Stefanović (1988) è un analista economico italiano, attualmente lavora come consulente all'OCSE di Parigi. Nato a Belgrado si è formato presso l’Università commerciale Luigi Bocconi di Milano e la Berlin School of Economics, specializzandosi in economia internazionale. Ha lavorato al centro di ricerche economiche Nomisma di Bologna e come research analyst presso il centro per gli studi industriali CSIL di Milano. Per East Journal scrive di economia e politica dei Balcani occidentali.

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