di Filip Stefanović
Cocciuti i serbi che non rinunciano al Kosovo (come se avessero ancora voce in capitolo), cocciuti i kosovari che non rinunciano a quanto di guadagnato, cocciuta l’Unione Europea che dopo quasi quindici anni comincia a esser stanca ed esige un happy end. Potremmo introdurre così i protagonisti di questo nostro teatro, sul palcoscenico una scenografia minimalista: una veduta di Bruxelles, la bandiera europea, un tavolo e qualche sedia. Il titolo della sceneggiata, “Dialoghi tecnici”.
Eppure Bruxelles sorride, pare contenta di avercela fatta, finalmente dopo tanto tempo serbi e kosovari hanno accettato di sedersi allo stesso tavolo, ospiti dell’UE, per discutere. Discutere cosa? Questioni tecniche, appunto, così sono state più e più volte definite dai giornali di ogni parte: telecomunicazioni, traffico aereo, timbri doganali, immatricolazioni, documenti catastali. Perché effettivamente i problemi pratici di due stati confinanti, in cui uno non riconosce l’altro, o almeno fa finta, sono tanti e curiosi, e forse vale la pena fare qualche esempio pratico per comprendere le relazioni vigenti tra Serbia e Kosovo: per volare da Pristina a Budapest potete scegliere se passare a ovest, da Montenegro, Bosnia, Croazia, o da est, Macedonia, Bulgaria, Romania. Per entrare in Serbia col vostro passaporto, vi conviene non mostrare timbri della Repubblica kosovara, perché il vostro documento non verrebbe considerato valido. Se la vostra vettura ha una targa serba può circolare in Kosovo (a meno che non sia di una provincia kosovara, in quanto la motorizzazione serba continua nonostante tutto a registrare targhe anche per le province del Kosovo), ma una targa kosovara non viene riconosciuta al confine serbo (a tal proposito potete pagare “targhe provvisorie” per 24h o più, e sostituirle). La presenza di un doppio catasto, serbo e kosovaro, rende le registrazioni complicate, faraginose ed imprecise, oltre a non essere riconosciute da una o dall’altra parte, a seconda.
Sono questi e simili, i problemi che i rappresentanti serbi e kosovari dovrebbero dirimire in quei di Bruxelles, nel primo incontro conclusosi mercoledì ed in quelli successivi, che seguiranno a cadenza fitta. Grattacapi ben più penosi, come il riconoscimento del Kosovo indipendente da parte serba o l’ipotetica rinuncia alla propria sovranità da quella kosovara sono dolorose spine nel fianco, tabù intoccabili (se non poi a parte, a riunione conclusa, per le gioia delle rispettive telecamere nazionali), in quanto entrambe le parti si dicono ferme e inamovibili sulle proprie posizioni: il fine ultimo è solo quello di “rimuovere gli ostacoli che hanno avuto un impatto negativo sulla vita quotidiana dei cittadini, migliorare la collaborazione e compiere un ulteriore passo sulla strada per l’Unione Europea”, fanno sapere da Bruxelles.
E qui però casca l’asino: spontanea sorge la domanda, qual è esattamente l’ostacolo tecnico che fa sì che la motorizzazione serba, ad esempio, continui a stampare targhe provinciali kosovare, se non il negato riconoscimento dell’indipendenza kosovara? Come si può quindi pensare davvero che il dialogo intrapreso tra Serbia e Kosovo possa avere il minimo futuro, o qualche risultato concreto, a parte la costruzione di una splendida facciata di maturazione diplomatica in vista dell’integrazione europea della Serbia, utile solo a salvare la faccia dei politici serbi, che possono continuare a diffondere l’assurda idea di poter calzare due scarpe con un piede solo – e l’ingresso in UE e l’attaccamento al Kosovo, e quella degli uomini di Bruxelles, legati a doppio filo ai successi o insuccessi del Kosovo, dopo essersi fortemente espressi a favore della sua indipendenza ormai tre anni or sono.
Il commento più realistico a tal proposito è stato rilasciato dal sostituto del Segretario di stato americano per gli affari europei, Thomas Countryman, che ha detto come “i politici e i media a Belgrado e Pristina ingigantiscono l’importanza del dialogo“, che è appunto solo “un dialogo, non sono accordi”, aggiungendo inoltre che “entrambe le parti possono creare tutti i problemi che vogliono”, e “nessuno può dire che durante i dialoghi non verrà citata la questione dello status. Sappiamo che la risoluzione pratica di diversi problemi toccherà lo status, ma sappiamo che lo status del Kosovo è un capitolo chiuso sul quale si può discutere, ma che non potrà in alcun modo essere modificato“.
La politica di Bruxelles, focalizzata principalmente a risolvere i contrasti tra Serbia e Kosovo può in verità rivelarsi un ostacolo per la neonata repubblica, che deve fronteggiare problemi interni tali e tanto gravi da poter benissimo tralasciare, almeno per il momento, la questione dei rapporti con la Serbia. La disoccupazione nel paese sfiora il 42%, il 50% dei kosovari vive sotto la soglia di povertà, il 18% sotto quella di povertà estrema. Ogni anno la forza lavoro del paese acquisisce 30.000 nuove unità, mentre è in grado di fornire posti di lavoro per circa un sesto di queste, le famiglie sopravvivono solo in quanto hanno parenti all’estero, che inviano i propri risparmi a casa, mentre le pensioni viaggiano tra i 40 e 70 euro. Il ricordo della combattuta e guadagnata indipendenza, come tutti i ricordi, è destinato a sbiadire nel tempo, e ciò che oggi appare misero potrebbe un domani risultare intollerabile. In un quadro così devastante è importante infine sottolineare che il 70% dei kosovari ha meno di 30 anni: se vengono totalmente a mancare le possibilità di miglioramento, la percezione di un cambiamento positivo negli standard di vita, allora sì che questo esercito di giovani frustrati potrà rappresentare una forza non controllabile, matrice di uno choc endogeno nella fragile neonata repubblica, dagli esiti imprevedibili nel contesto regionale d’appartenenza.
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