DA SARAJEVO – Sono trascorsi poco più di vent’anni dall’abbattimento del muro di Berlino, quell’evento fisico che ha comportato una serie di stravolgimenti ideologici, politici e sociali per una vasta area d’Europa, che comprende diversi milioni di abitanti delle più svariate estrazioni nazionali, dalla Germania dell’est alle ex repubbliche sovietiche, dall’area balcanica a quella caucasica. Il crollo del sistema bipolare, che per più di quattro decenni ha diviso il mondo in sfere d’influenza e in conflitti delocalizzati in remote regioni del pianeta, ha trascinato con sé nel baratro la “Grande Ideologia” marxista, provvedendo allo smantellamento di consolidati impianti sociali oltre che politici.
Preme anzitutto sottolineare che non s’intende qui fare l’apologia del socialismo, né proporre un revisionismo storico che riabiliti l’immagine di despoti sanguinari, ma solo effettuare un’analisi critica di quel che è venuto dopo: l’avvento della democrazia.
Quello che è stato considerato come “l’evento del secolo”, destinato a cambiare in meglio le sorti del mondo, può e deve essere oggetto di riflessioni che portino a considerare la negatività di alcune sue conseguenze. Il riferimento generale va alla pretesa superiorità della democrazia nel garantire un sistema socialmente ed economicamente più equo e giusto; nel particolare, si punta il dito contro la diffusione a macchia d’olio di fenomeni quali la criminalità organizzata, la corruzione generalizzata, i rigurgiti neo-fascisti e da ultimo, ma con un’attenzione speciale, il ritorno recrudescente della “questione etnica”, di cui il dramma jugoslavo assurge a titolo esemplificativo. Ecco quindi che il passaggio alla democrazia sembra aver assunto i toni di una “Grande Bugia”, laddove i circuiti politici invece che esser sospinti dai venti del rinnovamento sembrano essersi arenati ai vecchi schemi autoritari tipici dell’epoca sovietica.
La guerra degli anni Novanta in Jugoslavia è infatti l’espressione più violenta ed esiziale delle conseguenze derivanti dal crollo delle grandi ideologie. In questa tormentata regione d’Europa, il nazionalismo è tornato ad esser attuale in concomitanza allo scongelamento delle relazioni transatlantiche e al crollo del muro di Berlino. In particolare, l’esperienza “titina” sembrava aver congelato i latenti contrasti etnici del paese in nome di una più alta e trasversale dimensione identitaria: jugoslava, quindi multinazionale; e socialista, cioè sovranazionale.
Il conflitto fratricida degli anni Novanta non solo ha riportato in auge le secolari logiche etnonazionaliste – in accordo alle quali lo Stato deve coincidere con la Nazione, cioè con il sangue e la terra – ma ha anche ricostruito la storia secondo criteri prettamente nazionali, smembrando il comune contenuto storico in tante versioni differenti quante i diversi Stati-Nazione sorti sulle ceneri della guerra. La Storia si fa Nazione e la Nazione fa la Storia. L’unico punto su cui tutti sembrano concordare è la generale e unanime condanna del periodo socialista jugoslavo: l’apice storico della vita comune di questo popolo.
La guerra in Bosnia è finita, è vero, ma la pulizia etnica persiste nelle sue istituzioni democratiche. L’etnologia sembra essere l’unico parametro d’azione politica che questa democrazia riesce a seguire. Non v’è accordo politico che miri alla popolazione tutta, ma solo perpetui contrasti per non contaminare il proprio popolo con il diverso, sia esso musulmano, ortodosso o cattolico.
La democrazia bosniaca ha appena compiuto quindici anni ma i segni di maturità tardano a palesarsi. La reazione del popolo bosniaco (musulmano, ortodosso e cattolico) si manifesta nel crescente e diffuso sentimento jugonostalgico, inteso come espressione di rimpianto per un periodo storico in cui, sì, mancava la democrazia, ma v’era uno stato sociale equo, ed in cui la pace e la fratellanza stavano alla base della convivenza dei cittadini.
Il grande saggista polacco Adam Michnik ha definito il nazionalismo “come stadio supremo del comunismo”, a sottolineare la dialettica storica cui i popoli sembrerebbero destinati. In Bosnia, così come in tutto l’est Europa, per mezzo secolo il popolo è stato educato al motto di “proletari di tutto il mondo, unitevi!”, ed il passaggio alla democrazia ha comportato la sua evoluzione in un meno entusiastico ma purtroppo più attuale “etnie di tutto il mondo, combattetevi”.
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Foto (concessa da) Diego Stellino
Come nelle migliori tradizioni familiari,hai scritto un bellissimo pezzo. Continua cosi’.Bravo PAPA’
Ciao Giorgio, articolo suggestivo. Le mie obiezioni le conosci già. Quella fondamentale è che la caduta dei regimi del ‘socialismo realizzato’ ha prodotto rigurgiti nazionalisti di quella violenza solo nei Balcani. Il fenomeno del nazionalismo, più o meno marcato, è certo proprio dell’Europa orientale ma è un fenomeno naturale dopo cinquant’anni di oppressione e schiavitù da parte proprio del massimo rappresentante del ‘socialismo realizzato’. Che poi il socialismo realizzato (da Tito, come da Ceausescu o da Stalin) fosse garante di equità e convivenza, beh, non credo che i deportati georgiani, i dissenti politici incarcerati, le vittime di Katyn, siano d’accordo. Insomma, il tuo discorso tiene solo nella “jugosfera”.
Infine, come sai sono molto interessato al tuo approccio “unitario”, al tuo sostenere che -in fondo- la Jugoslavia esiste ancora nelle menti e nei cuori, che ciò che unisce i popoli balcanici sia infinitamente maggiore di ciò che li divide. Ma mi trovo scettico se questo si riduce all’inflazionato sentimento della jugonostalgia che talvolta mi pare più “occidentale” che balcanica.
Ultima cosa, la democrazia non è (dal mio punto di vista) una falsità ma una verità che occorre continuamente svelare. Non è qualcosa di compiuto, ma qualcosa che va costantemente inseguito. La democrazia, al contrario del socialismo, non è mai realizzata. La complessa struttura costituzionale venuta fuori da Dayton ha reso nei fatti impossibile la democrazia in Bosnia. Essa andrebbe riformata, non accantonata in nome di ritorno ad un passato indefinito.
Matteo
Concordo con Matteo sul fatto che la Jugoslavia sia del tutto peculiare e quindi non possa essere utilizzata come esempio delle dinamiche di tutta l’Europa socialista dal 1989 in poi (quando anzi viene messa per superficialità nello stesso calderone dei paesi del patto di Varsavia mi prude parecchio).
Il messaggio sottostante l’articolo di Giorgio può comunque essere riassunto (e condivido) con quanto teorizzato da Tim Judah della LSE quando parla di jugosfera, ossia quando sottolinea come gli esempi di collaborazione e vicinanza tra gli ex paesi della SFRJ siano molteplici e rilevanti, a partire dalla vicinanza linguistica ai dati sulle bilance commerciali dei diversi paesi, che mostrano come per Serbia, Bosnia, Croazia, Macedonia ecc. il commercio intraregionale tra gli ex paesi federati rappresenti una larga fetta del complessivo commercio internazionale. La stessa cosa per quanto riguarda gli investimenti, dove la Slovenia si attesta principale investitore nei paesi ex-fratelli. È ovvio che l’economia abbia rilevanti capacità aggregatrici che finiscono per riflettersi sui più disparati ambiti sociali, oltre ad essere una forza spontanea che pertanto può difficilmente venire contrastata da politiche di stampo nazionalista e separatista.
Questo è semplicemente un dato di fatto, il motivo per cui esso rimane sommerso o spesso visto con malocchio dai suoi protagonisti è dovuto a semplici ragioni storiche e umane: sono passati neanche vent’anni dalla guerra, troppo sangue, dolore e distruzione è stata creata perché si possa ammettere oggi con leggerezza “Ops! Forse dopotutto non ce n’era bisogno, forse i miei sono stati sacrificati inutilmente, traditi da chi ci ha mandato a sgozzarci, e non da quegli altri”… e allora si nega l’evidenza.
Cito W.Connor, tra i più alti intellettuali che mai abbiano scritto a proposito di nazionalismo:”tra nazionalismo ed etnonazionalismo non c’è differenza se nazionalismo è usato nel suo senso originario […], esso è per natura escludente, destabilizzante ed integralista”. Escludente, perchè in virtù di terra e sangue limita i gruppi biologici; destabilizzante, perchè in virtù di questa limitazione vuole creare autonomia politico sociale in seno a questi gruppi delimitati; ed integralista, perchè chiunque condivida sangue e terra DEVE contribuire alla riuscita di questa missione dal sapore “divino”.
La tacita premessa dell’articolo voleva inserirsi nella speranza di non generalizzare più di quanto sia inevitabile con un articolo così corto. Ovvero, l’iniziale e generale critica alla democrazia non vuole estendere a tutta l’Europa dell’est le medesime considerazioni: la democrazia fallisce ovunque, ma nei Balcani sotto forma di estrema violenza.
Non voglio discutere sul perchè, secondo me, la democrazia ha fallito – finora – più di quanto non abbia fatto il socialismo realizzato. Nel senso, le promesse socialiste sono state mantenute in misura maggiore di quanto non abbiano fatto le promesse “democratiche”, dal”89 in poi nell’Europa dell’est.
Considerazione finale (e suggerimento, se me lo concede) sul pensiero di Matteo, riguardante la democrazia: attenzione a considerare la democrazia come un valore da perseguire. La democrazia per esser definita tale, deve esser ASSOLUTA, ma non può arrivare a questo stadio se intesa come meta e non come strumento! La democrazia DEVE essere la via e non la meta. Se essa è solo meta, allora si passerà tutto il tempo a “sognare” e ad interrogarsi sulla sua incompiutezza (così come si faceva, appunto, con la filosofia marxista a proposito della “dittatura del proletariato”). Se essa è la via, consente REALE uguaglianza sociale ed economica per conseguire altre mete che non si fermino all’ordinamento di uno stato.
P.s. la jugonostalgija non l’ho mai sentita nella mia città in Italia, ma solo nella “mia città” in Bosnia, per questo l’ho riportata nell’esposizione della mia idea in questo articolo: perchè l’ho vissuta qui e non in Italia!
Giorgio Fruscione