SLAVIA: La libertà sessuale delle donne slave

Abbiamo visto come il mito delle amazzoni sia un riflesso della volontà femminile di emanciparsi dalla società patriarcale, costruendo una società a propria immagine. La condizione della donna presso gli antichi slavi soffriva infatti delle stesse implicazioni che si riscontravano presso i latini o i germani: sottomissione, schiavitù, compravendita, subalternità sociale finanche violenza impunita. Ma ci sono delle differenze sostanziali, che richiamano l’antico mito delle amazzoni, per le quali la donna slava poteva godere, in determinati contesti, di ampie libertà.

Il mito della dea Lada

Persistente nell’inconscio collettivo degli antichi slavi era il mito della dea Lada, simbolo del potere femminile e dell’irresistibile attrazione esercitata dalla donna. Come il sole riscalda la terra, dandole vita, così la donna – che trae forza dalla grande dea – attrae l’uomo sollecitandone gli ardori. Non a caso uno dei giochi di origine pagana durati più a lungo nel mondo slavo è il gorelki, verbo che significa appunto “ardere“, che si traduceva in un inseguimento che allude al rapimento rituale della donna, oggetto di amore e odio, di attrazione e paura, di desiderio e violenza. Poiché se la donna ha ricevuto dalla dea il sacro fuoco della vita che ella sola è capace di dare, allora catturarla significa catturare il fuoco cosicché la vita possa continuare.

Il ratto delle fanciulle

Il linguista serbo Vuk Karadzic, uno dei padri della lingua serbocroata, nel suo dizionario serbo-tedesco-latino pubblicato a Vienna nel 1852, descrive il lemma otmica che, in serbo, significa “l’atto di rapire le fanciulle“.  Un atto ancora in uso nel XIX° secolo in Serbia, ma non solo. Si entrava nella casa della ragazza, si metteva fuori combattimento il padre o il fratello, e si scappava con la fanciulla consenziente. La famiglia, lanciata all’inseguimento, li lasciava andare se il “ratto” serviva a mascherare l’impossibilità economica di sostenere il matrimonio ma più spesso gli dava la caccia, e non di rado scorreva il sangue. Qualora i giovani fossero sfuggiti, le famiglie parlamentavano e generalmente si giungeva ad un accordo, altrimenti si incendiavano case e raccolti della famiglia del rapitore.

L’usanza, nell’Ucraina del XVII° secolo, prevedeva anche il superamento delle barriere di classe. Come racconta Guillame Lavasseur de Beauplan, il contadino poteva rapire, a suo rischio e pericolo, la figlia del suo signore. Dopo ventiquattr’ore di fuga il rapitore era assolto e se anche la fanciulla desiderava contrarre matrimonio, non si poteva rifiutarlo. Ma per chi veniva preso la punizione era il taglio della testa, senza processo.

Ma l’usanza è assai più antica. Scrive il monaco kieviano Nestore nel suo Racconto dei tempi passati: “il matrimonio presso di loro (i Drevliani, antica tribù slava dei boschi) non esisteva ma venivano rapite le fanciulle presso le fonti”.

La libertà sessuale prima del matrimonio

Tuttavia nel ratto le donne sono oggetto, al più sono complici, ma certo non libere di decidere da sole. Presso gli slavi gli spazi di libertà femminili erano però assai più ampi: era infatti frequente che fosse la donna a scegliersi il marito. Scrive, nel X° secolo, il grande viaggiatore arabo Ibn’ Yaqub di passaggio per le terre slave: “Quando una giovane si innamora di un uomo, va alla casa di lui per soddisfare il proprio desiderio. E quando un uomo, sposata una fanciulla, la trova vergine, le dice: ‘Se alcunché di buono ci fosse in te, gli uomini ti avrebbero già voluta di certo e ti saresti recata da qualcuno che ti prendesse la verginità’. Indi la ripudia”.

Contrariamente a quanto avverrà in epoca cristiana la verginità non è un valore, anzi il valore della donna è dato dalla sua capacità di trovarsi compagni prima del matrimonio. Il già citato de Beauplan, in merito alla situazione in Ucraina, scrive: “contrariamente ai costumi delle altre nazioni, la si vedono le giovani fare l’amore ai ragazzi che piaccian loro, e sono più convinte della riuscita di quanto lo sarebbero i maschi se fossero loro a cercarle”. Erano le femmine ad andare in casa dell’uomo prescelto e “perseveravano e si intestardivano a non uscire dalla stanza finché non avessero ottenuto quel che pretendevano”.

La moglie col prete

Non erano rari i casi di polinadria tra serbe, russe e polacche. Dai documenti ecclesiastici (dopo la conversione, quindi!) emerge con chiarezza la possibilità della donna di lasciare un marito e prendersene uno migliore, pubblicamente e con la piena approvazione della comunità. Non c’era nulla di peccaminoso, specie se l’uomo abbandonato non era in grado di procreare. Più spesso si ammetteva, in caso di infertilità del marito, che la donna potesse giacere con altri uomini “per necessità” e i figli fossero riconosciuti legittimi a tutti gli effetti.

In Serbia, affinché il diavolo non ci mettesse del suo, la possibilità di darsi a un estraneo per essere ingravidata era limitata al solo prete del villaggio. L’opera pia e meritoria (sevap) di aiutare la donna portandola dal pope è ancora attestata nel 1923. In Russia era invece dovuto alla forza della società patriarcale che la donna giacesse con il suocero se il marito non riusciva a fecondarla. Ancora in Serbia era frequente che le mogli, mandate in spose a bambini in età insufficiente alla procreazione, venissero soddisfatte dai padri degli impuberi. Ma qui il margine di libertà è evidentemente ridotto quasi allo zero.

I diritti della donna

Presso gli antichi slavi l’istituto della dote era l’esatto contrario di quello che conosciamo oggi. La famiglia del marito doveva infatti provvedere a una dote per la moglie. I figli maschi erano quindi considerati un onere poiché il padre doveva attingere al proprio patrimonio. Ecco perché raggiunta l’età della spada venivano mandati per il mondo a cercare fortuna. Il viaggiatore arabo Ibn Rusta, nel X° secolo, racconta: “Quando fra gli slavi nasce un maschio, il padre gli mostra una spada e dice ‘non ti lascio alcuna fortuna al di là di quella che ti guadagnerà questa spada”. Alla morte del padre erano solo le donne a ereditare anche in presenza di figli maschi. Dopo la conversione al Cristianesimo gli uomini slavi faranno di tutto, riuscendoci infine, per ribaltare questa usanza.

Il Cristianesimo e la vittoria del maschio

La situazione paritaria sotto molti aspetti, dal diritto di voto nelle assemblee, al diritto all’eredità, a quello di scegliersi marito e persino ripudiarlo, non era certo vista di buon occhio dai maschi che si adeguavano alle usanze, consapevoli del potere della donna. Un potere “magico” che consentiva loro di far terminare le carestie (in Siberia le donne scavavano nottetempo un solco circolare intorno al villaggio colpito dalla carestia) e far abbondare i raccolti. Era il potere – il culto – della fertilità.

Proprio quello che il Cristianesimo, giunto nelle terre slave ormai compiuta la svolta moralistica agostiniana, ricoprirà del senso della colpa o, peggio, dell’impurità della donna immonda del ciclo mestruale. Colpevole di essere donna, la donna subirà anche nelle terre slave la sorte spesso ingrata che ovunque ha conosciuto. La libertà sessuale fu allora impossibile ma divenne, quando praticata, il simbolo della rivolta alla società patriarcale e della sue convenzioni. Lev Tolstoj, in Guerra e Pace, mette negli occhi di Natasa Rostova tutto questo antico e moderno spirito slavo che il lungo perdurare delle usanze pagane fino agli albori della modernità ha conservato nelle donne slave. Una capacità di emancipazione ancora ben visibile nelle società contemporanee.

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Foto: Audery Hepburn, in Guerra e Pace (1956) nel ruolo di Natasa Rostova

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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