Sergey (ma il nome lo sapremo solo dai titoli di coda) è un adolescente al suo primo giorno di scuola in un istituto per sordomuti in Ucraina. Nel giro di poco tempo si adatterà alla vita rude del collegio, dove nell’indifferenza quando non complicità dei supervisori i ragazzi sono auto-organizzati in una gerarchia paramafiosa e violenta, dedita a furti, racket e sfruttamento della prostituzione. Sergey arriverà fino a volerne sfidare regole e norme per impedire ad Anya, una delle sue compagne sfruttate, e di cui si è innamorato, di finire a battere i marciapiedi in Italia. E’ la trama di ПЛЕМЯ (Plemya) / The Tribe (Ucraina, 2014), già premio della critica a Cannes e presentato in questi giorni al 20° festival del cinema di Sarajevo.
In 123 minuti senza alcun dialogo né sottotitoli – il film è girato in lingua dei segni, con un cast di ragazzi sordomuti raccolto dal regista Myroslav Slaboshpytskiy nel giro di un anno tra vari instituti in Ucraina, Russia e Bielorussia – The Tribe mostra senza alcun pietismo la vita quotidiana di ragazzi e ragazze per i quali la vulnerabilità aggiuntiva della disabilità non sembra rappresentare un ostacolo alla scoperta del mondo degli adulti e del crimine, in un’Ucraina della transizione in cui le istituzioni, pubbliche e private, sono assenti quando non direttamente complici.
La scelta di non sottotitolare la lingua dei segni fa sì che – per gli spettatori che non la comprendono – tutto il peso della comunicazione tra i personaggi sia portato dall’espressività dei gesti e delle situazioni, talvolta più efficaci delle parole nel riprodurre emozioni – come nel caso dei litigi tra le ragazze, in cui i movimenti concitati delle mani trasmettono una sensazione di ansia opprimente. Ugualmente, la mancanza di nomi per i protagonisti contribuisce a disumanizzarli e ad identificarli solo con il ruolo che ricoprono nella gerarchia del gruppo.
The Tribe è un film che non lascia spazio al pudore, come non ve ne è nella vita dei suoi protagonisti – dalle scene di sesso tra Sergey ed Anya, fino alla sequenza relativa all’aborto clandestino di quest’ultima. Ma è soprattutto la sequenza finale che, in un crescendo di violenza e follia, completa la disumanizzazione del protagonista, il cui amore per Anya non riesce ad impedirgli di ripagare i suoi compagni con la stessa violenza che è la moneta di scambio del loro mondo.
Solo una segnalazione da linguista (con colleghi che studiano LIS): si dice “lingua dei segni” e non “linguaggio dei gesti” cfr. http://it.wikipedia.org/wiki/Lingua_dei_segni
Sembra una differenza da poco al profano, ma è sostanziale. Vi prego di correggerla, altrimenti come faccio a condividere con loro l’articolo? Grazie!
P.s. volendo fare i super-pignoli, si dovrebbe dire sordi e non sordomuti, dato che spesso la capacità di articolare suoni ce l’hanno anche i sordi 🙂
Riprendo il mio commento su Facebook per esprimervi alcune riserve sul capoverso che segue:
“La scelta di non sottotitolare il linguaggio dei gesti fa sì che tutto il peso della comunicazione tra i personaggi sia portato dall’espressività dei gesti e delle situazioni, talvolta più efficaci delle parole nel riprodurre emozioni – come nel caso dei litigi tra le ragazze, in cui i movimenti concitati delle mani trasmettono una sensazione di ansia opprimente. Ugualmente, la mancanza di nomi per i protagonisti contribuisce a disumanizzarli e ad identificarli solo con il ruolo che ricoprono nella gerarchia del gruppo.”
In realtà nel film le parole ci sono eccome. I gesti *sono* le parole. E i protagonisti sono chiamati per nome: il fatto che la gran parte di noi non sia in grado di capire un nome-segno non è la stessa cosa che una “mancanza di nomi”.