SERBIA: Rigurgiti e ingurgiti

Parte /6 di “Quanto è piccola la Grande Serbia”

La forza e preoccupante popolarità che hanno ormai raggiunto i movimenti di estrema destra in Serbia rendono imbarazzante e irrimediabilmente difficile ritenere che le ragioni di questa rabbia risiedano in una perdita valoriale, o nella mancanza di prospettive delle nuove generazioni. Sulla base di quali ragioni questi movimenti extraparlamentari (e, pertanto, estranei al processo democratico) ritengono di avere diritto ad un nuovo contratto sociale, per il quale adoperarsi tramite l’uso della violenza e contro ogni principio di rappresentanza popolare? Le manifestazioni violente, le reazioni rabbiose ed i tafferugli che con preoccupante costanza prendono piede per le strade della capitale non sono mai motivati da precarie condizioni sociali, mancanza di lavoro, richieste programmatiche, ma solo dall’odio verso l’Altro: ne è una facile dimostrazione il resoconto del gay pride di Belgrado, domenica 10 ottobre 2010. I violenti scontri che hanno caratterizzato l’evento, trasmessi dai giornali di tutto il mondo, sono stati letti unicamente come segno di una mancanza di maturità sociale e valoriale, ossia di una fondamentale, persistente impreparazione della Serbia a raggiungere standard europei, metabolizzando valori occidentali quali la tolleranza, la democrazia ed il rispetto reciproco. In realtà, la contromanifestazione omofobica è stata soltanto un pretesto per sfoggiare i muscoli, dimostrare la propria forza, l’organizzazione e la capacità, se necessario, di affossare lo stato. Le immagini scattate il 10 ottobre non parlano del cieco odio razzista di gruppi giovanili, ma di un pianificato tentativo di colpo di stato.

Slobodan Radovanovic, procuratore della repubblica, in un’intervista di novembre per il programma Insajder di B92, afferma: “Dai riscontri ufficiali, ci sono circa 3500 estremisti organizzati come un esercito e sempre pronti a colpire, ossia a distruggere tutto ciò che si para loro davanti. Così a Belgrado il 10 ottobre sembrava fosse scoppiata la guerra. Dopo molteplici atti di vandalismo, alcune migliaia di estremisti è riuscita, nonostante la massiccia presenza della polizia, a mettere a ferro e fuoco la città. Negli scontri sono rimasti feriti 132 poliziotti. Armi sui tetti dei palazzi, cartucce di proiettili sparati contro le sedi dei partiti e della televisione… Non sono reazioni emotive di giovani uomini, ma segno che era tutto organizzato e preparato in precedenza. Chi ne sia l’organizzatore, non è ancora certo, in quanto l’inchiesta è ancora in corso. Sono state fermate oltre 200 persone. Il leader dell’organizzazione destrorsa “Obraz”, Mladen Obradovic, è stato arrestato qualche ora prima dell’inizio del gay pride, e da lui è stato ritrovato, come ha dichiarato la polizia, un piano per la fomentazione dei disordini, oltre ad elenchi di partecipanti, col compito di scatenare contemporaneamente incidenti in diversi punti della città.”

Tre giorni dopo gli eventi, il 13 ottobre, le “Dveri”, che hanno preso parte alla contromanifestazione omofobica, indicono una conferenza stampa, in cui viene chiesta a gran voce l’immediata scarcerazione di tutti gli arrestati per gli incidenti del 10 ottobre: “Già che parliamo di uligani, allora dobbiamo vedere chi davvero sta distruggendo questo paese, e lo sta facendo il governo. I veri uligani sono a capo di questo paese, e non quelli in strada l’altro giorno”.

Ciò nonostante, il 10 dicembre 2010 il Ministero degli Interni serbo e il Consiglio del Parlamento della Vojvodina hanno pubblicato un’informativa di notevole rilevanza, nella quale per la prima volta diverse organizzazioni, tra le quali “Krv i čast” e “Obraz” vengono ufficialmente bollate come “clerofasciste”. Il loro minimo comune denominatore, secondo l’informativa, è “l’antioccidentalismo, il nazionalismo, l’unicità ideologica, l’appoggio a Radovan Karadzic e Ratko Mladic, l’omofobia, l’animosità verso i valori liberali e l’antisemistismo”. Non dimentichiamo che è proprio accanto e per mano di questi movimenti che diversi prelati della Chiesa ortodossa serba sono scesi, crocifisso in mano, per marciare contro le demoniache orde omosessuali e la loro “falsa ideologia”. Una Chiesa che per quanto si professi categoricamente “contro ogni forma di violenza”, non ha mai ritenuto di dover puntare direttamente il dito, facendo nomi e cognomi, contro chi questa violenza la perpetua, né dissociarsi apertamente dai diversi movimenti che alla Chiesa ortodossa serba si rifanno, usandola come cappello ideologico e morale per mezzo del quale giustificare i propri atti di forza.

In questo groviglio inestricabile di vittimismi, odi, falsi miti, sostegni reciproci, è difficile indicare un capo ed una coda. La Chiesa, ertasi a guida morale del popolo anche per mezzo di strumenti politici, i movimenti uligani e tifosi, pronti a dare man forte ogni volta che se ne presenti l’occasione, e le organizzazioni neofasciste formano un triangolo perfetto, capace di assediare la società civile dalle periferie e dall’alto, senza un vero centro di comando, ma gravitando tutt’attorno, a cerchi sempre più stretti, e rendendo sempre più palese l’incapacità dello stato di liberarsi da pressioni di stampo isolazionista. Solo un forte impegno da parte dello Stato, e la ferma condanna degli atteggiamenti sciovinisti e antieuropei potrebbero farci credere che il futuro della Serbia sia davvero in Europa. Tale comportamento, però, comporterebbe un’inevitabile condanna e l’inimicamento della Chiesa ortodossa, che, tradotto, significherebbe un suicidio politico. Nessuno è disposto a sacrificarsi, e così, mentre l’economia del paese va velocemente a rotoli, anche le istituzioni democratiche sembrano sempre più riluttanti a reagire agli attacchi esterni, fino al giorno in cui, possibilmente, si troveranno nella condizione di non poter più contrastare, per le strade come in parlamento, i rigurgiti del nazionalismo.


Chi è Filip Stefanović

Filip Stefanović (1988) è un analista economico italiano, attualmente lavora come consulente all'OCSE di Parigi. Nato a Belgrado si è formato presso l’Università commerciale Luigi Bocconi di Milano e la Berlin School of Economics, specializzandosi in economia internazionale. Ha lavorato al centro di ricerche economiche Nomisma di Bologna e come research analyst presso il centro per gli studi industriali CSIL di Milano. Per East Journal scrive di economia e politica dei Balcani occidentali.

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