TURCHIA: L'ISIS mette nei guai Ankara. Una politica estera a effetto boomerang

L’avanzata dell’ISIS (Stato Islamico dell’Iraq e del Levante) non accenna a fermarsi. Il primo giorno di Ramadan il gruppo jihadista ha istituito il califfato che intende esteso dal territorio iracheno fino ad Aleppo in Siria, e nonostante la liberazione di trenta ostaggi turchi, ha ancora nelle mani il console di Ankara rapito a Mosul ed il suo staff. I nuovi fermenti terroristici nello scacchiere mediorientale chiamano la Turchia a due sfide fondamentali: porre un freno all’ascesa dell’Isis e recuperare un peso geopolitico ormai in discussione.

Equilibrio in bilico

Come sottolinea Ben Hubbard sul New York Times la Turchia è l’attore regionale che sta pagando il prezzo più alto della deriva jihadista. Ankara, in concerto con i paesi del Golfo, è stata una dei maggiori finanziatori delle forze ribelli al regime siriano, e in questo senso non sorprende che durante questi anni abbia chiuso più di un occhio sul libero passaggio di miliziani sunniti da un confine ad un altro. Pur sottolineando che l’Isis rimanga un gruppo terroristico diverso da Al-Qaeda e da Jabhat Al-Nusra (presente in Siria), il disinvolto attraversamento di frontiera ha sicuramente alimentato quell’integralismo sunnita che oggi la Turchia sta pagando sulla propria pelle.

Inoltre, il ritardo con cui il governo turco ha riconosciuto Jabhat Al-Nusra come “organizzazione terroristica” e il mancato riconoscimento come tale dell’Isis desta più di qualche dubbio. Un altro fattore che evidenzia l’ambiguità diplomatica di Ankara è il comportamento con l’Occidente di fronte alle vicende mediorientali: alle violenti accuse dell’opposizione riguardo il supporto (non solo economico) alle forze jihadiste, il governo Erdogan ha subito puntato il dito contro gli alleati atlantici incapaci di prendere posizioni contro il regime siriano, salvo poi rimarcare la propria collaborazione con la Nato nell’incontro Davutoglu-Rasmussen di una settimana fa. La Turchia ha sempre auspicato un’entrata in guerra contro Damasco con l’intento di rompere l’asse sciita di quella regione tra Siria ed Iran. Questa strategia in pochi anni non solo è naufragata ma ha contribuito a regalare slancio al quel terrorismo che la Turchia aveva fino a quel momento foraggiato.

La questione economica

In qualità di secondo stato esportatore in Iraq dopo la Germania e con uno scambio commerciale che supera i 13 miliardi di dollari, Ankara ha molto da perdere. Secondo un rapporto dell’opposizione, il governo turco non solo spenderà quasi nove miliardi di dollari per la crisi irachena ma dovrà far fronte ad un probabile rialzo del prezzo del petrolio che ha raggiunto ormai i 115 dollari al barile. Va ricordato poi la chiusura di 550 aziende turche esportatrici di cibo in Iraq che hanno chiuso i battenti in attesa di tempi migliori.

Un ruolo sempre meno rilevante

Anni fa la politica estera turca era stata presentata come futuro riferimento per tutti i paesi islamici, cooperante ma autonoma nel suo prestigio e nel suo bagaglio culturale e storico, così diverso sia dall’Occidente che dall’Oriente. La dottrina “zero problemi con i vicini” ha lasciato il posto ad un isolamento che Ankara ha il dovere di recuperare. La possibile alleanza Usa- Iran per arginare la tempesta jihadista relega la Turchia ad un probabile compito marginale. In Siria le forze di opposizione arrancano e il regime siriano sciita non solo ha acquisito una solida legittimità politica tramite recenti elezioni, ma assume un nuovo ruolo da protagonista nella guerra contro l’Isis sunnita. In ultima analisi occorre ricordare le fallimentari contromisure turche nella primavera araba egiziana, con l’appoggio incontrastato ai Fratelli Musulmani successivamente destituiti dal golpe militare.

Foto: Danceinthesky, Flickr

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