Nel maggio 2013, poco meno di un anno fa, iniziarono in Turchia una serie di manifestazioni di protesta nei confronti del governo del premier turco Recep Tayyip Erdogan.
Tutto ebbe inizio da un piccolo sit in di una cinquantina di ambientalisti che con le proprie tende si accamparono nello storico Gezi Park, con il nobile scopo di occuparlo per salvare gli alberi di una delle poche aree verdi della parte europea di Istanbul, minacciati dalle ruspe e dalla costruzione di un centro commerciale.
Le voci della protesta si diffusero rapidamente grazie ai social network, la scintilla divampò in incendio, i manifestanti divennero presto migliaia e le proteste contro Erdogan, covate nel tempo, si estesero a tutto il paese.
Le manifestazioni che seguirono ad Istanbul, nella capitale Ankara e in numerose altre città del paese della mezzaluna furono represse con violenza dal governo.
Migliaia furono i feriti alla fine di quei duri scontri. Sette persone persero la vita, l’ultima delle quali è Berkin Elvan, un ragazzino di soli quindici anni colpito in testa da un candelotto di gas lacrimogeno sparato da un agente mentre andava a comprare il pane, morto l’11 marzo dopo un coma di nove mesi. Un episodio che ha acceso nuove manifestazioni di protesta in tutta la Turchia.
L’indignazione causata da un uso smodato della forza da parte della polizia, lo sparo di gas lacrimogeni ad altezza d’uomo con il probabile utilizzo di agenti chimici contro i manifestanti, l’arresto di numerosi reporters e giornalisti turchi e internazionali che coprivano i fatti, di alcuni avvocati che difendevano manifestanti in stato di fermo e, addirittura, le minacce e il fermo di medici intenti a curare i feriti, fecero sì che il dissenso e lo sdegno si estendessero oltre ai confini turchi.
Le manifestazioni contro Erdogan dilagarono in paesi di tutto il mondo. Aperte critiche furono espresse dei media occidentali e in via ufficiale dalla comunità internazionale, dall’’Onu, dall’Unione Europea e dagli Stati Uniti.
Sull’onda di quelle proteste di massa la figura di Erdogan sembrò vacillare, sia sul fronte interno che su quello della credibilità internazionale. Ma il “Sultano”alla fine, seppur indebolito, resistette.
Gli ultimi mesi sono stati pieni di insidie per il premier turco, coinvolto in un duro scontro politico e di potere con l’influente predicatore turco in esilio negli Stati Uniti Fetullah Gulen, un tempo potente e utile alleato del suo governo conservatore islamico ed ora acerrimo nemico, sospettato di essere a capo di uno “stato parallelo” e l’autore di un tentato golpe politico-giudiziario.
Gulen è accusato da Erdogan di aver utilizzato la sua grande influenza nei corpi della polizia e della magistratura per orchestrare la campagna denigratoria che ha visto recentemente coinvolto il governo turco in un maxi-scandalo di corruzione: tre ministri sono stati costretti alle dimissioni, alcuni figli di responsabili di dicasteri, coinvolti negli scandali, sono stati arrestati. Il successivo rimpasto di governo ha toccato mezzo esecutivo, mettendo a rischio la figura e la leadership di Erdogan nel partito.
Il premier turco, colpito personalmente dall’uscita in rete a fine febbraio di alcune intercettazioni telefoniche tra lui e il figlio che testimonierebbero il suo coinvolgimento negli scandali, ha continuato la sua battaglia anti-tecnologica contro gli odiati social network che tanto avevano contribuito all’estendersi della protesta di un anno fa, con la discutibile chiusura prima di Twitter e poi di You tube, nel tentativo di censurare forme di dissenso e il diffondersi di materiale scottante ai suoi danni.
Sembrava un uomo politicamente alle corde, terrorizzato di fronte allo spauracchio delle imminenti elezioni amministrative del 30 marzo 2014, che avrebbero potuto comprometttere il suo potere, dando il definitivo colpo di grazia alla sua leadership decennale all’interno del suo Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP).
Lunedì 1 aprile i detrattori e gli avversari politici del “Sultano” si svegliarono con un poco gradito “pesce di aprile”: l’ AKP di Erdogan rimaneva primo partito, sopra al 40 % a livello nazionale, l’egemonia nelle due principali e determinanti metropoli del paese, Istanbul e la capitale Ankara, era mantenuta.
A dispetto delle proteste di massa di un anno fa, degli enormi scandali in cui il governo è stato coinvolto, delle lotte intestine e delle difficoltà politiche affrontate dal premier turco, il consenso popolare è rimasto più o meno in linea con quello precedente i gravi fatti di Gezi Park, che a detta di molti avrebbero dovuto costituire lo spartiacque tra l’inarrestabile ascesa di Erdogan e il suo imminente, inevitabile declino politico.
Una vittoria schiacciante e significativa, l’ennesima.
La maggior parte del popolo turco, ancora una volta, ha scelto Erdogan, che ora può dedicarsi, forte del successo elettorale, a regolare i conti con i suoi nemici (è di questi giorni la richiesta agli Stati Uniti di estradizione di Fetullah Gulen) guardando con rinnovata fiducia alle elezioni presidenziali previste per il prossimo agosto.
Tra il novembre 2012 e gennaio 2013 vissi per tre mesi ad Istanbul, un periodo insufficiente per capire a fondo una città complessa come quella della metropoli affacciata sul Bosforo, ma certamente sufficiente per farsene una idea.
Da italiano mi è stato facile entrare a contatto e frequentare persone che vivevano con uno stile di vita europeo, quasi tutte provenienti da famiglie turche laiche piuttosto colte e benestanti, con studi universitari alle spalle ed esperienze all’estero. Persone che vivevano o frequentavano in prevalenza il quartiere di Beyoğlu , la zona bohemièn /radical chic di Cihangir nelle vicinanze di piazza Taksim, frequentata da artisti, registi, fotografi, scrittori, intellettuali o giovani professionisti tra i trenta e i quarant’anni.
Locali in stile europeo, aperitivi, cene, movida notturna, vernissage su splendide terrazze affacciate sul Bosforo o sul Corno d’Oro, inaugurazioni di nuovi negozi e di gallerie d’arte a Beyoglu e a Beşiktaş, che sorgevano come i funghi dopo giorni di pioggia. Ragazze e donne vestite all’occidentale.
Nessuna differenza nello stile di vita, in questa Istanbul, con città come Milano, Berlino, New York o Shangai.
Al solo pronunciar il nome di Erdogan questi amici inorridivano.
Erano loro, giustamente, insieme a molti intellettuali, agli studenti universitari, a criticare le politiche del premier, denunciarne la corruzione, la speculazione immobiliare che sta distruggendo interi quartieri della città, la censura su internet, a schierarsi a difesa della libertà di espressione ( la Turchia ha il triste record mondiale di giornalisti incarcerati), a parlarmi della crescente paura per una islamizzazione della società.
Partecipai, con alcuni di questi amici, a manifestazioni varie, respirando il clima di tensione latente presente in città. Assistetti personalmente, alla fine di una manifestazione, dall’alto di un edificio, ad un episodio di violenza da parte della polizia che mi lasciò basito: il lancio di gas lacrimogeni, assolutamente ingiustificato e gratuito, su una folla di persone totalmente pacifiche che, senza provocazione alcuna, se ne stava tranquillamente tornando a casa.
Ecco perché non mi stupii più di tanto quando, a distanza di quattro mesi dalla mia partenza, scoppiarono le proteste di Gezi Park. Non mi meravigliò la reazione e la gestione della crisi di Erdogan, non mi stupirono le maniere forti utilizzate dai suoi poliziotti in assetto da guerra.
Conobbi anche, in quei giorni, amandola profondamente, una Istanbul molto differente: i quartieri conservatori di Fatih e di Eyup, le strette e impervie vie dei “quartieri occidentali” di Balat, Zeyrek, Fener, con le loro vecchie case di legno in stile ottomano che stanno scomparendo, il “malfamato” quartiere di Tarlabaşı, a soli dieci minuti da piazza Taksim.
Diventai un habitué di questi affascinanti quartieri conservatori e tradizionali, abitati in prevalenza da famiglie di poveri immigrati originari dell’Anatolia: una Istanbul di donne velate, anziani che sgranano rosari, piccole botteghe, laboratori artigianali, locande a gestione familiare, panni stesi da balcone a balcone, bambini che giocano in strada, totale assenza di locali e vita notturna.
Persone semplici, povere, che nonostante ambienti di provenienza culturale, credi, valori e tradizioni totalmente differenti dalle mie e ovvie difficoltà di comunicazione dovute alla mia scarsissima conoscenza della loro lingua, mi hanno regalato la loro amicizia, i loro sorrisi, una straordinaria ospitalità, facendomi vivere momenti di vita ed esperienze indimenticabili. Forse quelle a me più care nel ricordo del periodo trascorso sul Bosforo.
Al citare il nome di Erdogan questi amici, non inorridivano affatto.
Due Istanbul (ma ce ne sono molte più di due) totalmente contrastanti, mondi distanti anni luce, impossibili da mischiare, come l’acqua con l’olio.
Quasi impossibile convincere gli amici “turchi-europei”, ovviamente molto più vicini a me dal punto di vista culturale e per affinità di interessi, a lasciare la “loro Istanbul” e seguirmi nelle emozionanti incursioni nell’altra Istanbul, a loro così vicina ma al tempo stesso così lontana, di cui parlavo entusiasta davanti alle loro espressioni stupite e perplesse.
Le rare volte che vi riuscii, io, straniero, feci loro da cicerone in quartieri distanti solo una ventina di minuti a piedi dalle loro case, ma mai visitati, assolutamente sconosciuti, distanti migliaia di chilometri in termini culturali e di stile di vita.
Un’impresa titanica convincerli a prendere una spremuta d’arancia o un panino a trenta centesimi per strada, identici se non migliori rispetto a quelli pagati l’equivalente di tre o quattro euro nei locali “all’ europea” di Taksim, Beyoglu,Nişantaşı, Bebek o nei nuovi lussuosi shopping mall dei grattacieli dei quartieri moderni di Maslak e Levent.
Difficile convincerli a provare a passare del tempo a chiacchierare con un pescatore, o mangiare in una locanda semplice ma straordinariamente accogliente, calda per ambiente e calore umano. Tutte cose che io adoravo.
Tentai, forse ingenuamente, cercando di sfruttare il mio status di straniero che provava interesse e curiosità, ma al tempo stesso ne suscitava, per tentare di unire quei mondi opposti, anche solo per piccoli istanti.
Un esperimento fallimentare: gli amici turchi dallo stile di vita occidentale, fuori dal loro contesto, si dimostrarono molto meno liberal, tolleranti, progressisti e di aperte vedute che nelle loro brillanti e condivisibili conversazioni, e al tempo stesso, anche loro, seppur in mia presenza, erano guardati e trattati dai loro connazionali con molta più diffidenza e meno calore di quanto capitasse a me quando girovagavo da solo.
Continuai, nel corso di quei mesi, a frequentare e godere di entrambi quei mondi, ma in sede separata.
Istanbul è una metropoli di più o meno quindici milioni di abitanti. Ogni anno la città accoglie centinaia di miglia di nuovi immigrati, la maggior parte dei quali povere persone provenienti dalle regioni dell’Anatolia. Interi nuovi quartieri nascono nella sterminata periferia della città.
L’Istanbul europea e asiatica che è nel nostro immaginario, che visitiamo da turisti e quella che ho avuto modo di vivere e conoscere personalmente, seppur abbia tentato di immergermi il più possibile nelle sue complicate e sfaccettate differenze e sfumature, ne costituisce solo una piccola parte.
Che ci piaccia o meno, in un paese laico come la Turchia del padre della nazione Kemal Ataturk ma la cui popolazione è composta in stragrande maggioranza da persone di religione musulmana, ci sono milioni di persone che per tradizioni, cultura e religione si avvicinano molto più alle idee politiche e ai valori proposti da Erdogan che a quelli, sicuramente più vicini ai nostri, della Istanbul degli intellettuali alla Pamuk, dei movimenti studenteschi, degli ecologisti, dei miei amici di Cihangir, le persone che, in sostanza, costituirono il motore delle proteste di Gezi park.
Pur condividendo le istanze di coloro che presero parte a quelle storiche manifestazioni e non essendo affatto un fan di Erdogan, non ho mai creduto, come poteva sembrare dai nostri media o da molte analisi lette e sentite, che quelle istanze, seppur ai miei occhi giuste, rappresentassero effettivamente quelle della maggior parte del popolo turco che al contrario e legittimamente, ci piaccia o meno, aveva votato, e continua a votare, per il premier turco.
Non ho mai creduto che il numero delle case in cui le pentole venivano battute e utilizzate per protesta nelle caldi notti del maggio/giugno scorso, per quanto evocativo e forte fosse il suono da loro prodotto, fosse in realtà superiore a quello delle case in cui le pentole continuavano a svolgere solamente la loro abituale funzione culinaria.
Ecco il motivo per cui non mi sono stupito più di tanto quando, alle elezioni amministrative del 30 marzo, milioni di turchi hanno continuato a votare, a Istanbul come nel resto del paese, per Erdogan.
Benvenuti a Fatih, Eyup, Balat, Fener, nei quartieri feudo di Erdogan…qui il reportage fotografico
Bell’articolo e bellissime le foto. Condivido l’analisi, ho avuto anch’io la stessa impressione durante il mio ultimo viaggio a Istanbul qualche mese fa. Complimenti. Sono un editore, se interessato ad un contatto mi mandi un suo indirizzo email. Ilaria Catastini