Photo: Flickr / Chun Lam
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BOSNIA: Diverse memorie di un passato comune, lo stesso sogno di un futuro diverso

di Ilaria Vianello

Sarajevo ha ricordato l’anniversario dell’inizio dell’assedio, il 6 Aprile 1992, data convenzionalmente accettata per il più lungo assedio nella storia bellica moderna. L’installazione delle 11.541 sedie rosse nella famosa Ulica Maršala Tita è stato l’evento mediatico più seguito, ma oltre a quest’ultimo diverse sono state le esibizioni fotografiche e le presentazioni di libri. Gli stessi giornalisti che vent’anni fa si trovavano a Sarajevo a fotografare le violenze dell’assedio si sono ritrovati nel famoso albergo Holiday Inn.

Circondati da immagini, parole e musiche struggenti, a Sarajevo e ai suoi abitanti è stato chiesto di ricordare. Voleva Sarajevo ricordare? Volevano i suoi abitanti ricordare? La commemorazione non sembra aver messo al centro dell’attenzione chi è sopravvissuto all’assedio: gli abitanti che qui non hanno mai smesso di vivere, coloro che qui hanno cercato rifugio durante la guerra e coloro che qui hanno deciso di tornare.

Con questo articolo vorrei ricordare non solo le 11.541 persone che sono tragicamente morte durante l’assedio, ma anche chi è sopravvissuto, i loro ricordi, le loro preoccupazioni e la loro visione di Sarajevo tra altri vent’anni. Riporto qui tre testimonianze di persone che vivono ora in città: Aldijana, Irena e Irfan.

Aldijana ha trent’anni. Lei a Sarajevo ha vissuto tutta la sua vita. All’inizio dell’assedio aveva dodici anni, al termine ne aveva sedici. I quattro lunghi anni dell’assedio se li ricorda, si ricorda la mancanza di cibo e il terrore nelle strade. Aldijana si ricorda le notti passate nello scantinato della scuola per la paura di essere colpita da una granata sulla sua via verso casa e l’angoscia dei genitori che passavano quelle notti senza avere sue notizie. Aldijana non vuole ricordare, è contrariata da tutte le commemorazioni del ventennale che trova uno spettacolo ad uso e consumo del resto del mondo. Le vittime e l’assedio sono ricordi vividi, presenti ogni giorno nella sua vita e pensa che “un giorno solo non sia abbastanza per ricordare”. Aldijana vuole andare avanti e sogna una Sarajevo diversa per i suoi due figli, la Sarajevo multietnica che si ricorda prima della guerra. Lei è figlia di un matrimonio misto, non appartiene a nessun gruppo etnico e a nessuno vuole appartenere, nonostante ciò giochi a suo sfavore. Da cinque anni cerca lavoro, e sa bene che la sua ‘non appartenenza’ rappresenta un continuo ostacolo. Quando le è stato chiesto di specificare il suo  gruppo etnico per poter partecipare al concorso di polizia, ha deciso di definirsi come ‘altri’ e per questo la sua domanda non è stata accolta (la Costituzione della Bosnia e Erzegovina prevede che per l’assunzione in taluni impieghi statali siano rispettate le tre quote etniche. Bosgnacchi, croati e serbi: la quota ‘altri’ non è prevista).

Irena ha venticinque anni. Durante l’assedio è andata prima in Svizzera e in un secondo momento in Ungheria. L’assedio e la guerra non fanno parte dei suoi ricordi, e quindi al suo ritorno si è scontrata con un una realtà a lei sconosciuta. Irena ha frequentato l’università a Tuzla, dove per la prima volta le è stato chiesto di specificare la sua appartenenza etnica. Mi racconta, con il sorriso sulle labbra, di aver copiato dalla vicina la risposta. Pensando di scrivere bosniaca, cittadina della Bosnia Erzegovina, copiò bosgnacca. Irena ha origini croate, il suo cognome parla per lei, ma oltre a non dare importanza al gruppo di appartenenza all’età di ventitre anni ha deciso di convertirsi alla religione musulmana. Non ha partecipato alle attività organizzate per l’anniversario, avrebbe voluto ma non ha avuto il tempo per prendervi parte. Irena non vuole sviscerare il significato delle commemorazioni ma è convinta che sia un fattore positivo che i media internazionali abbiano ricordato Sarajevo, soprattutto se questo potrà servire a ottenere più fondi per la Bosnia e Erzegovina e la sua popolazione. Irena a Sarajevo vuole rimanere e sogna una Sarajevo dove tutti siano bosniaci e abbiano la possibilità di credere nella religione che sentono più vicina, a prescindere dalla loro etnia. Irena vuole credere al suo sogno, ma nei suoi occhi si legge la delusione per il sistema politico ed i suoi rappresentanti eletti che vede come manipolatori e fomentatori delle divisioni già esistenti tra gruppi etnici.

Irfan ha venticinque anni. Originario di Pale (città oggi in Republika Srpska), è scappato insieme alla sua famiglia all’età di sei anni per venire a cercare rifugio nella città assediata di Sarajevo. Questa scelta apparentemente paradossale è stata dettata dalla sua etnia che lo rendeva minoranza nella città natale. Nella tragicità della guerra Irfan ricollega l’assedio alle sue memorie di bambino.  Portando molto rispetto per le vittime, racconta con passione e ironia l’assedio. “Da bambini” racconta “avevamo un ruolo privilegiato durante la guerra, non dovevamo andare a combattere, non dovevamo preoccuparci di trovare il cibo, avevamo molto tempo libero per inventare giochi, leggere libri e vivevamo intensamente pensando che ogni giorno potesse essere l’ultimo”. Irfan si rende conto di quanto i suoi ricordi appaiano incredibili ma racconta di come durante l’assedio numerosi gruppi di musica rock fossero nati, come le persone avessero creato una rete per potersi scambiare i libri, come si vivesse sempre in comunità e di come l’essere umano fosse capace di adattarsi anche a situazioni disumane. Irfan, forse avrebbe voluto partecipare alle commemorazioni, ma ha deciso di proteggersi e di non farsi del male. Anche lui vuole rimanere a vivere a Sarajevo ma sente che la città sta lentamente sprofondando nelle sabbie mobili. Secondo Irfan, la politica è troppo concentrata sulle divisioni etniche e questo rappresenta un forte rischio per il futuro di Sarajevo e della Bosnia e Erzegovina che sembra vivere nell’attesa che qualcosa cambi, quasi nell’attesa di un nuovo referendum.

Tre memorie di un passato comune che li ha portati a vivere tre esperienze unicamente diverse. Tre presenti diversi accumunati dall’insofferenza per una classe politica che non li rappresenta. Tra vent’anni immaginano una Sarajevo di tutti i bosniaci, ma rimane ancora la paura che questo sogno sia irrealizzabile.

I would like to thank Aldijana Pivasevic, Irena Rakić and Irfan Kujović for opening their memories and for sharing their hopes.

* Ilaria Vianello è stagista presso UNDP Sarajevo

Photo: Flickr / Chun Lam

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