La Corte Speciale che indaga sui crimini commessi dall’UCK durante e dopo il conflitto in Kosovo ha condannato Pjeter Shala, il comandante “Ujku” (Wolf, Lupo). A distanza di un quarto di secolo, è ancora difficile il percorso per il reciproco riconoscimento delle responsabilità del conflitto di fine anni ’90
Non si ferma il lavoro del Kosovo Specialist Chambers and Specialist Prosecutor’s Office, la Corte speciale istituita nel 2015 con lo scopo di indagare sui crimini perpetrati dall’UCK, l’Esercito di Liberazione del Kosovo, nel corso della guerra del 1998-99, con sede all’Aja, in Olanda.
La condanna del comandante “Wolf”
Il 16 luglio scorso, infatti, è arrivato in primo grado il verdetto di condanna per Pjeter Shala, alias “Comandante Wolf”, un nome un programma. Si tratta in realtà di un personaggio di secondo piano, poco noto anche in Kosovo e residente per anni in Belgio, ma la sua condanna è stata comunque pesante, diciotto anni di reclusione, comunque inferiore ai ventotto richiesti dal procuratore (italiano) Filippo De Minicis in ragione degli atti di “violenza ingiustificabili e codardi” di cui si sarebbe macchiato l’imputato.
La condanna, infatti, arriva a fronte di tre diversi capi di imputazione, crimini di guerra, detenzione arbitraria e tortura. Fatti che risalgono al periodo tra maggio e giugno del 1999, con la guerra ormai agli sgoccioli e l’avvio di quel regolamento dei conti sommario che sempre accompagna le ultime fasi di uno scontro feroce come quello. Le vittime, infatti, sono un gruppo di diciotto albanesi kosovari accusati da Shala e compagni di essere traditori e collaboratori dei serbi e pertanto rinchiusi presso la fabbrica metallurgica di Kukes, in Albania. Qui sarebbero stati picchiati, seviziati e reiteratamente torturati, fino a causare la morte di uno di loro. Pur nell’ambito di una “azione criminale congiunta” la Corte ha riconosciuto Shala come “individualmente responsabile”, sottolineando la chiara volontà dell’accusato di uccidere.
La Storia del paese nel mirino della Corte
La condanna è appellabile ma conferma la precisa determinazione della Corte speciale di proseguire il percorso avviato quasi dieci anni fa per far luce sul drammatico biennio della guerra del Kosovo. Dopo un iniziale periodo interlocutorio, la Corte ha infatti decisamente cambiato passo. E se l’avvio dei primi dibattimenti è arrivato solo nel 2020, riguardando oltretutto un “pesce piccolo” dell’organizzazione militare kosovara, Salih Mustafa (condannato a 22 anni nel 2022), la sua azione ha poi subito una perentoria accelerazione non esitando a puntare il dito contro i massimi livelli istituzionali del paese e provocando un vero e proprio terremoto politico ai vertici dello stato.
Il processo a Hashim Thaçi, ex primo ministro del paese e presidente della Repubblica tra il 2016 e il 2020 (fino alle sue dimissioni proprio a causa del rinvio a giudizio) è iniziato nell’aprile dello scorso anno e nello stesso dibattimento è coinvolto anche Kadri Veseli, ex presidente del parlamento e leader del Partito Democratico del Kosovo (PDK). Entrambi sono detenuti in Olanda fin dal momento del loro arresto, quasi quattro anni fa. Condividono lo stesso destino altri due ex parlamentari, Rexhep Selimi e Jakup Krasniqi a controprova di quanto sia alto il livello d’attenzione della Corte. Altri imputati erano Hysni Gucati e Nasim Haradinaj, capo e vicecapo dell’organizzazione dei veterani dell’UCK, entrambi già condannati a quattro anni e mezzo di reclusione per aver diffuso informazioni secretate e aver ostacolato il corso della giustizia.
Dalla narrazione monoetnica alla condivisione delle responsabilità
Un percorso irto di difficoltà quello della Corte, fin dalla sua istituzione. E’ infatti mal digerita dai kosovari di etnia albanese che l’accusano di essere un ente etnicamente fazioso, specie nel contesto di un paese in cui, ancora oggi, una larga fetta della popolazione considera gli ex combattenti dell’UCK come dei veri propri eroi. Ragion per cui, pur facendo formalmente parte del sistema giudiziario kosovaro, la sua sede non si trova nel paese e la sua gestione è totalmente affidata a personale internazionale.
Una situazione lucidamente descritta da un rapporto pubblicato pochi giorni fa da BIRN (Balkan Investigative Reporting Network) che denuncia come le autorità pubbliche kosovare alimentino una narrazione incompleta e unilaterale, supportate in questo dai media locali, perlopiù impegnati in un racconto monoetnico sui processi in atto all’Aja. Nell’illustrare l’indagine, Kreshnik Gashi – caporedattore di BIRN – ha anche sottolineato l’assenza di un archivio documentale completo e persino di un elenco ufficiale delle vittime del conflitto. Sulla falsa riga è anche l’opinione di Dušan Radaković, direttore esecutivo dell’ONG Advocacy Centre for Democratic Culture con sede a Mitrovica Nord, che osserva l’intento divisivo portato avanti dalla classe dirigente kosovara concludendo amaramente che “parlare solo di albanesi o solo di serbi non ci darà una prospettiva per il futuro”.
Un passo importante nella giusta direzione è stato, tuttavia, la creazione lo scorso anno dell’Istituto per i Crimini Commessi Durante la Guerra, alla testa del quale il primo ministro Albin Kurti ha voluto mettere Atdhe Hetemi, docente di Scienze Politiche all’Università di Pristina. Hetemi ha rassicurato in merito al fatto che l’Istituto lavorerà “al servizio della giustizia” ripromettendosi di mettere proprio le vittime al centro del suo lavoro, come doveroso tributo nei loro confronti e a inconfutabile dimostrazione che la “guerra è stata un male per tutti”.
Un proposito ambizioso e difficilissimo allo stesso tempo, un proposito che dovrà innanzi tutto misurarsi con reale desiderio della società kosovara di andare oltre sperando che il tempo abbia saputo creare – davvero – la necessaria distanza emotiva da quel dramma.
(Foto: Kosovapress.com)