Con il primo giorno di quest’anno si è celebrato il 30° anniversario di quello che, alla luce dell’aggressione russa contro l’Ucraina, che ha violentemente riportato la questione dei confini di tragica d’attualità, ci appare come un evento di politica internazionale davvero più unico che raro. Parliamo della scissione, pacifica e consensuale, della Cecoslovacchia in due nuove entità statuali.
Allo scoccare della mezzanotte del 1° gennaio 1993 ecco nascere, quindi, due nuovi Stati, sovrani e indipendenti: la Repubblica Ceca (o Cechia, come oggi sempre più in uso) e la Slovacchia. Ed ecco, contestualmente, estinguersi, dopo poco più di 73 anni di esistenza (fatta eccezione per i 6 anni dell’occupazione nazista e dello Stato fantoccio filonazista slovacco di cui più avanti) quel peculiare esperimento politico, nato, con l’inderogabile beneplacito del presidente americano Woodrow Wilson, il 28 ottobre 1918 sulle ceneri del grande impero danubiano, per visione e volere del suo fondatore, e primo presidente, Tomáš Garrigue Masaryk, e chiamato Cecoslovacchia.
Tra corsi e ricorsi storici,
Non sono questi né la sede né lo spazio per ripercorrere la storia secolare dei rapporti tra cechi e slovacchi ma, al fine di comprendere meglio i motivi della loro separazione, sarà utile ricordare che, benché per quasi quattro secoli assoggettati agli Asburgo, cechi e slovacchi afferivano a due diverse corone, e culture, dell’impero bicefalo: austriache i primi, ungheresi i secondi. Laddove quest’ultimi, prima del 1993, non avevano mai sperimentato una reale autonomia statuale avendo, di fatto, trascorso sotto il gioco magiaro ben quasi un millennio. Percorsi storici e politici molto diversi, seppur sul solco di due lingue e culture molto affini, che aiutano a capire un divorzio difficile da leggere da quell’Occidente dove le aspirazioni nazionalistiche hanno già trovato piena espressione durante il Risorgimento. A differenza, appunto, di quell’Europa centrale che le ha viste, invece, a lungo soppresse e frustrate dal perdurare di grandi imperi, più o meno reazionari.
Tornando all’oggi, 30 anni dopo, è tramite le lenti di una domanda fondamentale, e del conseguente verdetto valoriale, che possiamo leggere questo evento: si trattò di ineluttabile divorzio, e quindi giusto e auspicabile, o, piuttosto, dell’esito di contingenti manovre politiche che potevano, e secondo taluni dovevano, essere evitate? Esempi rappresentativi di risposte nettamente opposte alla vexata quaestio ci arrivano da due eminenti intellettuali cechi intervistati, con la collaborazione dell’autore di questo testo, dalla troupe di EstOvest (qui il servizio) di Rai3.
…condanne…
La prima risposta che analizzeremo è quella dello scrittore, pubblicista e sceneggiatore Pavel Kosatík, che sull’argomento ha recentemente pubblicato il libro Slovensko 30 let poté (La Slovacchia 30 anni dopo), secondo il quale cechi e slovacchi non vissero bene la divisione che accadde molto in fretta, a solo 3 anni dalla Rivoluzione di Velluto, quando entrambe le nazioni erano ancora fragili e prive di élite intellettuali capaci di guidarle attraverso un processo così importante e complicato. La scissione fu fatta contro la volontà della maggioranza, in ossequio al volere di minoranze nazionaliste che, in entrambi i paesi, godevano si è no di un 20% di preferenze, e senza il suggello di un referendum federale, che avrebbe dato forza e legittimità politica a una decisione così cruciale.
Oggi la gente, da entrambe le parti della frontiera, si dice prevalentemente contenta dell’esistenza dei due Stati, con soddisfazione più netta tra le generazioni più recenti e più sfumata tra chi visse da adulto in quell’epoca, ma, a detta di Kosatík, mancano la comprensione di quanto accadde e la capacità di elaborare il passato. Evidenti, sì, la gioia e l’orgoglio di aver evitato la violenza (si pensi a quanto avveniva proprio in quegli anni nell’ex Jugoslavia), ma la divisione ha significato anche un progressivo allontanamento tra i due popoli. È prassi comune per i politici dire che “i nostri rapporti non sono mai stati migliori” (tradizionalmente la prima visita di Stato dei nuovi presidenti in entrambi i paesi è sempre dedicata al vicino), e di certo lo sono a livello diplomatico, istituzionale ed economico. Ma a livello popolare per i cechi, per esempio, i rapporti si sono ridotti sostanzialmente al turismo a fronte di un interesse pressoché nullo per la cultura e la società slovacca.
In senso inverso, ricorda Kosatík, permane, invece, un interesse più vivace dovuto al fatto che, per gli slovacchi, i cechi sono dei “mediatori e catalizzatori della cultura occidentale”, similmente come per i cechi lo sono i tedeschi. Un esempio di questo scollamento è il fatto che, ormai, in Cechia si doppiano o sottotitolano i film slovacchi, benché le due lingue siano molto simili (assai più di quanto non lo siano, per fare un esempio vicino al lettore, italiano e spagnolo). Non tanto per gli adulti cresciuti ancora durante il regime comunista, quando le due lingue erano usate indistintamente, quanto per le generazioni più giovani che, oggi, già faticano a comprendere lo slovacco. Spesso con stupore dei vicini che, al contrario, non hanno problemi a comprendere il ceco, complice anche la grande quantità di libri e film, vecchi e nuovi, in lingua ceca che circolano nel paese dei Monti Tatra.
… e assoluzioni,
Giudizio più positivo o, se vogliamo, fatalista su questo divorzio è quello dell’altro intervistato, Jan Rychlík, storico e professore universitario, secondo il quale è destino di ogni popolo che abbia raggiunto una sua maturità politica e culturale bramare l’indipendenza. Ove incluso in una formazione statuale più grande, arriva inesorabilmente il momento in cui inizia ad esigere determinati vantaggi e avanzare pretese incompatibili con lo Stato unitario. Di qui l’esito naturale della scissione.
L’idea di uno stato comune prende le mosse dalla vicinanza linguistica tra i due popoli. Nel XIX e XX secolo nell’Europa centrale si riteneva che quello linguistico fosse l’elemento fondante di un popolo. Oggi sappiamo che così non è: esistono popoli che usano più di una lingua, così come popoli diversi che usano una lingua comune. L’altro elemento fondamentale era il quadro geopolitico di allora: all’inizio del XX secolo e durante la prima Guerra mondiale i fondatori del futuro stato cecoslovacco si chiedevano se avrebbero retto uno stato ceco con un terzo della popolazione germanofona e, di contro, uno slovacco con un quarto di cittadini magiarofoni che non avrebbero sentito proprio i nuovi stati. Inoltre, all’epoca i cechi erano circondati su tutti i lati da terre di lingua tedesca (Germania, Slesia, Austria). Di qui l’idea di unirsi con gli slovacchi per “far massa slava” da contrapporre all’elemento germanico. Per i cechi, inoltre, la Slovacchia appariva come un utile “corridoio” per sfuggire verso est dall’accerchiamento tedesco. Pericolo tedesco di cui ebbero piena contezza nel settembre del 1938 prima con l’Accordo di Monaco, che smembrò il paese assegnando i Sudeti germanofoni al Reich, e il 14 marzo 1939, poi, con l’invasione nazista e l’istituzione del Protettorato di Boemia e Moravia.
Ma già dal 1968, con l’invasione sovietica, apparve evidente che il pericolo non era più la Germania ma quello stesso Est verso cui era protesa la Slovacchia. Ecco spiegato, secondo il prof. Rychlík, lo scarso interesse dei cechi negli anni ‘90 per la Slovacchia. Dopo il ‘45 circa 3 milioni di tedeschi furono cacciati dalla Cecoslovacchia, gran parte della Slesia andò alla Polonia, l’Austria non si riteneva più tedesca e, anzi, dopo la caduta del Muro di Berlino collaborare con i tedeschi sembrava utile e positivo per tornare rapidamente nell’alveo delle istituzioni europee. Il corridoio verso est, al contrario, si era fatto inutile e anzi pericoloso. Per questo motivo, da via di fuga ed exit strategy, la Slovacchia per i cechi viene declassata a mera regione cuscinetto contro eventuali aggressioni da est.
A fronte di queste ragioni squisitamente geopolitiche, il professor Rychlík evidenzia anche motivazioni di natura più domestica. Václav Klaus, futura stella della scena politica conservatrice ceca e, all’epoca, premier ceco, mise il suo corrispettivo Vladimír Mečiar di fronte a un aut aut: o uno stato federale con un centro relativamente forte, indispensabile alle drastiche riforme economiche di shock therapy che lo avrebbero reso celebre, e di cui gli slovacchi non si fidavano, oppure addio. E non vi fu consultazione popolare perché le due parti non trovarono un consenso sul quesito referendario da porre. Le due versioni possibili, che erano Siete per uno stato comune? oppure Volete scindere la Cecoslovacchia in due stati?, apparentemente simili avevano in realtà implicazioni ben diverse. Soprattutto allorquando con comune i due popoli intendevano cose diverse: per i cechi quel comune significava uno Stato unitario (naturalmente guidato da Praga) articolato in una federazione, mentre gli slovacchi lo intendevano come un’associazione o confederazione di due Stati sostanzialmente sovrani e indipendenti.
Rychlik racconta di una corrispondente austriaca che, illo tempore, riassunse in modo calzante le due posizioni inconciliabili: per i cechi la Cecoslovacchia doveva essere un Bundesstaat, ovvero uno Stato federale, mentre gli slovacchi avevano in mente uno Staatenbund, vale a dire una confederazione di Stati, o, se vogliamo, una specie di micro Unione europea limitata a due Paesi. Posizioni sostanzialmente inconciliabili con relativo successivo rimpallo delle responsabilità della divisione con gli slovacchi che accusavano i cechi di non aver mai davvero compreso né onorato le aspirazioni slovacche di autonomia, e i secondi che rimproveravano ai primi l’assurda pretesa di voler beneficiare contemporaneamente dei vantaggi e dello stato indipendente e della formazione federale.
A facilitare l’addio, risparmiando il bagno di sangue jugoslavo, l’assenza della questione territoriale. La frontiera tra Cechia e Slovacchia è, infatti, una delle più antiche d’Europa e risale al XII secolo, quando separava il Regno di Boemia da quello d’Ungheria. Da allora è rimasta pressoché immutata.
Tutto questo al netto della lunga e irrisolta diatriba sul nome da dare, spentasi alla fine del 1989 la Repubblica Socialista Cecoslovacca, alla nuova formazione statuale, passata alla storia come “guerra del trattino”, che qui risparmieremo al lettore, ma di cui, a titolo di curiosità storica, si riporteranno i vari nomi, tra effettivi e proposti, oggetto, allora, di accesi dibattiti e discussioni: Repubblica Cecoslovacca, Repubblica Ceco-Slovacca, Repubblica di Ceco-Slovacchia, Repubblica Federale Cecoslovacca, Repubblica Federale Ceco-Slovacca e Repubblica Federale Ceca e Slovacca.
La storia di un divorzio, di velluto, annunciato
Nella consapevolezza, in conclusione, dell’alto valore umanistico della visione offerta da Kosatík, ammantata di un idealismo paneuropeistico secondo cui è sempre meglio unire invece che dividere, chi scrive queste righe propende più per il pragmatismo storicistico dell’interpretazione proposta da Rychlík. Quello tra cechi e slovacchi, infatti, più che dettato da vero sentimento e profonda convinzione, appare come un matrimonio di convenienza che, in quanto tale, rimane saldo finché saldi sono gli interessi che lo animano. Nella fattispecie, come spiegato, il bisogno, temporaneo, di unirsi in un’alleanza slava da opporre agli ingombranti elementi etnici confinanti quali quello tedesco e quello ungherese, nonché l’esigenza di creare un lungo corridoio, che andava dalla Germania centrale fino all’odierna Ucraina occidentale, approntato su due corsie: una culturale e politica verso Ovest, più utile agli slovacchi, e una geopolitica e securitaria verso Est, più utile ai cechi.
Decadute tali necessità e dissoltosi il collante del socialismo reale, appare, forse, davvero inevitabile lo scioglimento di questo matrimonio in quel divorzio, pacifico e consensuale ,oggi chiamato, appunto, “di velluto”, sull’onda lunga della Rivoluzione di Velluto di tre anni prima. D’altronde fu matrimonio gravato da costanti incomprensioni, politiche e culturali, tra paternalismi centripeti e insofferenze centrifughe macchiate di reiterate “scappatelle” del socio di minoranza. Si pensi, all’indomani dell’invasione nazista del marzo 1939, alla repentina secessione degli slovacchi dallo Stato unitario, disposti ad allearsi addirittura con Adolf Hitler pur di avere il loro stato autonomo, ancorché fantoccio, retto dal sacerdote Jozef Tiso. O alle istanze della Primavera di Praga, guidate dallo slovacco Alexander Dubček dietro le quali, secondo l’autorevole parere di Petr Pithart, premier del primo governo cecoslovacco liberamente eletto, si nascondevano, in realtà, pulsioni autonomiste mascherate dal riformismo democratizzante del cosiddetto Socialismo dal volto umano. O, ancora, paradossalmente al velato e indiretto collaborazionismo slovacco dopo l’invasione, questa volta sovietica, del 1968, che Mosca premiò, il 1° gennaio 1969, con l’istituzione della Repubblica Socialista Slovacca nell’ambito della nuova federalizzazione dello Stato unitario socialista precedentemente fortemente centralizzato e pragocentrico e con l’elezione a primo segretario del Partito Comunista Cecoslovacco, e poi a presidente di tutta la federazione, dello slovacco Gustav Husák.
Altra riprova ne sia, forse, anche la facilità con cui la Slovacchia, in questi ultimi 30 anni, è più volte scivolata verso le chine pericolose di traiettorie nazionalistiche alle quali, finora, Praga sembra aver resistito mantenendosi più ancorata ai valori e alle pratiche della democrazia liberale di stampo occidentale. Le imminenti elezioni politiche slovacche potrebbero, in tal senso, darci un ulteriore elemento di riflessione. Per chiudere, un’ultima chiosa: dopo la scissione, la neonata Repubblica Ceca ha conservato, immutata, la bandiera cecoslovacca a testimonianza di un’identificazione e una continuità con la statualità precedente, con o senza l’orpello slovacco, mai realmente percepito proprio né, come preteso dai cugini slovacchi, alla pari.
Ai posteri, come sempre, l’ardua sentenza.
Foto: elaborazione grafica della TV pubblica ceca