un anno di guerra

Un anno di guerra. Eppure è avvenuto

Un anno fa è avvenuto l’inimmaginabile, l’inatteso. Quel giorno scrivemmo – e fu sgomento – la guerra è cominciata. Parole che fino ad allora sapevano di storia, polverosi racconti, eventi passati. La guerra, invece. entrava nelle nostre vite. Non una guerra – tante, atroci, ce ne sono state negli ultimi anni – ma la guerra. Quella che avrebbe cambiato gli equilibri del mondo, aperto a scenari spaventosi e carichi di incognite. Quella che toccava il nostro mondo, l’Europa. E quella parte d’Europa che ci è più cara. Dopo un anno è pressante la domanda: quando potremo scrivere la guerra è finita?

Difficile prevedere quando sarà la pace, e che pace sarà. Occorre evitare di cullarsi nell’illusione delle soluzioni temporanee, che apriranno invece a nuove recrudescenze. L’abbiamo già visto nel 2015, con gli Accordi di Minsk, quando il congelamento del conflitto non ha portato a una pacificazione, ma alla guerra su larga scala. Il diritto internazionale sancisce l’inviolabilità dei confini, ne consegue che nessun nuovo Stato può nascere modificando frontiere preesistenti e, soprattutto, nessuna annessione territoriale potrà mai essere accettata. L’inviolabilità dei confini è il principio cardine della pace globale, in caso contrario ogni paese potrebbe rivendicare territori perduti secoli prima, avviando conflitti politici e militari. Ecco perché una tregua che consenta all’aggressore di mantenere il controllo temporaneo dei territori occupati illegalmente, non servirà ad altro che a consentirgli di riorganizzarsi e imporre con la forza il proprio volere, mettendo il mondo davanti al dato di fatto che la violenza, la legge del più forte, è l’unica legge possibile. La tregua, il congelamento del conflitto, il cessate-il-fuoco, sono auspicabili solo come premessa a un negoziato di pace vero e duraturo. Ma quale pace può esserlo?

Una pace che preveda l’uscita dei russi dai territori occupati, è una pace che può avere una possibilità di durare. Ma occorrerà forse accettare dolorose mutilazioni, autonomie speciali per alcune regioni, e trovare un punto di caduta comune su quello che è il nodo del contendere, vale a dire la Crimea. Questa sarebbe forse la pace più onorevole per tutti e consentirebbe alla Russia, sperabilmente senza Putin, di vedere formalmente riconosciute alcune istanze. La neutralità dell’Ucraina – che avrebbe potuto rappresentare una via d’uscita dal conflitto – diventa giorno dopo giorno più impossibile: aggredita e violata, l’Ucraina non potrà che cercare a Occidente garanzie di sopravvivenza, e legami economici, accordi di associazione e parternariati. La pace è quindi estremamente difficile, ma uno sforzo di mediazione – esaurite le munizioni, sepolti i soldati, falciate le generazioni, svuotate le casse – appare la via necessaria per una pace che non si dissoci dalla giustizia.

Una pace del genere, però, ha bisogno di istituzioni internazionali efficaci, capaci di mediare e fare da camera di compensazione per gli interessi contrapposti. Al momento, tuttavia, né le Nazioni Unite né l’OSCE (l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) sembrano in grado di svolgere il ruolo che gli è richiesto. Questo conflitto è quindi anche l’occasione per ripensare le istituzioni internazionali nate dalla fine della Seconda guerra mondiale e costruire un nuovo sistema di sicurezza europeo e globale che non può escludere la Russia. Viceversa, una pace che sia il risultato della vittoria totale di una delle due parti, aprirebbe scenari di imprevedibile instabilità. Una sconfitta totale della Russia non è immaginabile, fosse solo per la deterrenza atomica; una disfatta ucraina getterebbe nel panico l’Europa centro-orientale, aprendo le cataratte del nazionalismo baltico o polacco, e «scaldando» vecchi conflitti congelati, come quello della Transnistria, di fatto trascinando l’Europa in uno stato d’allarme dagli esiti imprevedibili.

Qualche giorno fa, presentando il nostro libro, Ucraina, alle radici della guerra, un signore ha chiesto cosa spinge gli ucraini a resistere. Non lo so, gli ho detto. Quello che credo di aver capito è che questa guerra sia una questione privata. Tante questioni private che si coagulano attorno a una questione pubblica: la patria, la difesa nazionale. E la cosa più privata – e insieme pubblica – che c’è, sono i figli. Gli ucraini difendono la casa, la famiglia. Difendono un’idea di futuro. Non combattono per Zelens’kyj, né per qualche ideologia politica. Per questo resistono così, lungo le scale mobili, le feste di compleanno nei rifugi antiaerei, un bacio sotto le bombe, disegnare su un muro, sorridere da un finestrino. Non sappiamo come si possa fare. Ma lo fanno. E poi viene in mente Baczyński, che scriveva poesie d’amore durante l’insurrezione di Varsavia del 1944. Circondato dall’orrore, lui cantava la gioia della vita. I nazisti lo hanno ammazzato, ma lui canta ancora, con altre parole, in una lingua diversa, per le strade di Kiev.

Parlare della pace è certo più facile, ancorché illusorio, che parlare di guerra. Che la guerra non sono le avanzate e le ritirate, non sono le bombe, i carri armati, i droni. Queste sono cose razionali, che si possono capire. Quello che non riusciremo a capire è l’abbandono alla violenza, ferina e brutale, da parte dell’occupante, da parte di soldati, di uomini, che hanno violato donne e bambine negli scantinati o in camere di tortura, che hanno evirato, macellato, giustiziato passanti, mani legate dietro la schiena e un colpo alla fronte, abbattuti come bestiame, con le biciclette riverse nei fossi.

Quello che non riusciremo mai a capire della guerra è l’obbedienza cieca agli ordini, la soddisfazione per la vittoria e il suo corollario di macerie, la festa del sangue. Sono cose che conosciamo ma che la mente rifiuta e non crede possibili, e forse a questo si deve il negazionismo su Bucha e analoghe stragi. Eppure, è avvenuto. Non in qualche Africa lontana dove più facilmente possiamo collocare barbarie che pretendiamo ataviche e connaturate a popoli che diciamo primitivi, consolandoci che cose del genere, qui da noi, non possano accadere. No, in Europa invece è avvenuto. E da parte del popolo che ha dato all’umanità vette di luce, guerra e pace, delitto e castigo, vita e destino.

Lo avevamo già visto andare in scena a Srebrenica, ma si era detto è la polveriera balcanica, gente da poco, levantini abituati al coltello. E la voglia di allontanare da noi anche l’orrore di questa guerra, attribuendolo a qualche caratteristica culturale o biologica, a qualche irriducibile alterità, è forte. Si è detto e scritto che quelli son russi, asiatici in fondo, capaci unicamente di vivere come schiavi agli ordini di un autocrate, hanno sangue di steppa e orda, mica come noi occidentali, atlantidei, democratici, liberi. Noi che ci vogliamo candidi, superiori, come se i russi non fossero espressione della nostra stessa civiltà. Quello che non riusciremo mai a capire, né a spiegare, è l’orrore di cui siamo capaci tutti. I russi non sono mostri, il nemico non lo è mai. Sono uomini, quadri addestrati, hanno famiglie e hanno figli, sono pieni d’amore. Sono il nostro specchio. Siamo noi.

parte del testo è tratto da Ucraina, alle radici della guerra (Paesi edizioni, 2022) un libro scritto e curato dalla redazione di East Journal. Foto di Yevhenii Zavhorodnii, via war.ukraine.ua.

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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