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UCRAINA: Liberata Kherson, ma non è tempo di negoziati

Dopo la liberazione di Kherson si parla insistentemente di negoziati, tuttavia non sembra essere una via percorribile adesso. Ecco perché…

Al loro ingresso a Kherson, i soldati ucraini sono stati accolti con scene di giubilo da parte di una popolazione che il Cremlino pretendeva di aver annesso con un referendum farsa. “La Russia qui per sempre”, recitava il cartellone propagandistico, e senz’altro i mesi di occupazione devono essere sembrati un’eternità per la gente prigioniera dei “liberatori” russi. Dietro la festa, resta una città colpita, senza elettricità né acqua, con scarse risorse alimentari e un duro inverno davanti, mine sparse chissà dove, e la diga di Nova Kakhovka danneggiata – la cui acqua alimenta la centrale nucleare di Zaporizhzhia. L’agenzia statale russa RIA Novosti ha pubblicato un video in cui sembra essere distrutto anche il ponte Antonovsky che collega Kherson alla riva orientale.

Kherson non è un “regalo” russo

Tutto questo testimonia come la liberazione di Kherson non sia il risultato di una contrattazione politica, ma del lavoro sistematico dell’esercito ucraino impegnato a consumare quello russo attraverso la metodica distruzione delle rotte di rifornimento, effettuando attacchi di precisione su depositi di munizioni e posti di comando. La ritirata da Kherson non è un “segno di buona volontà” da parte del Cremlino, ma il risultato degli sforzi militari ucraini. Allo stesso modo, quella dei negoziati non è un’apertura di Mosca verso Kiev ma una richiesta isterica da parte di chi, terrorizzato dalla sconfitta, non risparmia missili e droni su città inermi e sui loro abitanti. Non c’è nessuna volontà di pace da parte del Cremlino, che non ha rinunciato al suo disegno di annientare l’Ucraina come stato indipendente.

C’è poco da negoziare

Eventuali trattative serviranno ai russi solo a guadagnare tempo, aggiustando e rinforzando alcune acquisizioni territoriali, ottenendo una pausa operativa utile a riorganizzare la propria manovra, ristabilendo le linee di rifornimento e addestrando i nuovi soldati. Il governo di Kiev, inoltre, non ha nessuna convenienza ad avviare negoziati ora che si trova in posizione di vantaggio e riesce a portare avanti un’azione che toglie al nemico qualsiasi iniziativa. I progressi, lenti ma costanti, che le forze ucraine stanno registrando anche nel Donbass non possono che corroborare l’intenzione di liberare tutti i territori occupati senza doversi affidare a vie diplomatiche in cui, probabilmente, rischierebbero di vedersi scavalcati dalle potenze in lotta.

Qualunque cosa dicano il Cremlino e i suoi accoliti occidentali, sparsi per televisioni, accademie e giornali, i negoziati non sono una via realistica adesso. Tuttavia, questo non significa che il negoziato non sia la strada per porre fine alla guerra quando la Russia ritirerà le sue truppe fuori dal territorio ucraino. Allora ci sarà molto da discutere, ma il Cremlino dovrà inevitabilmente avere un nuovo inquilino. Finché ci sarà Putin, cioè uno che definisce Kherson “territorio occupato dall’Ucraina”. c’è poco da negoziare.

Riconoscere Putin come interlocutore

E questo lo sanno bene a Kiev, a Washington e nelle cancellerie europee. In un discorso del 7 novembre, Volodymyr Zelens’kyj ha indicato cinque condizioni per negoziare con la Russia: “Ripristino dell’integrità territoriale, rispetto della Carta delle Nazioni Unite, risarcimenti per tutti i danni causati dalla guerra, punizione di ogni criminale di guerra e garanzie che ciò non accada più”. Le elezioni di metà mandato americane, pur registrando una flessione dei democratici, non hanno sconvolto il quadro politico e i Repubblicani hanno già dichiarato la loro intenzione di proseguire nel sostegno all’Ucraina. Forse, però, lo faranno con maggiore pragmatismo. Nel già citato discorso di Zelens’kyj, il presidente ucraino ha dimenticato di inserire tra le condizioni per la pace la rimozione di Putin, sempre indicata in analoghe dichiarazioni precedenti. Come a dire: con questa Russia dobbiamo fare i conti. Con Putin e il suo regime. Abbatterlo appare difficile. Tuttavia, le conseguenze di una guerra sui regimi possono essere catastrofiche. Cent’anni fa imperi secolari crollarono dopo una guerra perduta, e una nuova Europa si affacciò alla finestra della Storia. Sperare è ancora lecito.

foto di Taras Ibrahimov / Suspilne, via war.ukraine.ua

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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