Almaty Astana

KAZAKHSTAN: Racconto di due città, Almaty e Astana

Almaty e Astana rappresentano due facce del Kazakhstan, un contrasto in cui si celano due anime in gioco per il futuro del paese…

di Alessandro Balduzzi

foto di Alessandro Balduzzi su Instagram

La varietà di Almaty si legge nei volti, tanto dei suoi abitanti quanto degli edifici che la compongono. L’incrociarsi nelle strade di volti asiatici dagli occhi allungati e di pallori punteggiati dal ceruleo di sguardi simil-pietroburghesi dischiude anche all’osservatore più distratto l’amalgama di etnie figlio di invasioni, conquiste e recenti indipendenze. Proprio dal crollo dell’Unione Sovietica e dalla conseguente emancipazione del Kazakhstan dalla stretta del Cremlino ha origine la contrapposizione tra vecchia e nuova capitale, tra Almaty la meridionale e Nur-Sultan (già Astana) la nordica. Nella competizione, Almaty ha dalla propria numerose virtù: un clima più temperato, una collocazione che la vede coronata dalle montagne del comprensorio del Tian Shan, un patrimonio architettonico che spazia dagli edifici lignei riecheggianti i centri siberiani alle vestigie del modernismo sovietico.

Un taxista di origine coreana mi dice che Almaty era la terza città più verde dell’Urss per verde pubblico, con Kiev a guidare la classifica. Non sono stato in grado di reperire la graduatoria, ma non stento a crederlo. Il centro della città è un intreccio ortogonale di viali alberati, con gli incroci che come nodi di una rete spesso sono occupati da giardini e parchi. Al centro di uno di questi – dedicato “ai 28 della divisione Panfilov” morti nella difesa di Mosca dai nazisti nel 1941 – si erge la cattedrale dell’Ascensione, completata nel 1907 senza chiodi e attualmente il secondo edificio ligneo più alto al mondo, 56 metri di ortodossia nel centro dell’ex capitale kazaka.

La gradevolezza di Almaty è evidente in centro, ma aprendo lo sguardo ai dintorni la città acquisisce ulteriore fascino. A mezz’ora di autobus dal centro gli impianti di risalita portano a Shymbulak, comprensorio sciistico che si spinge oltre tremila metri di altezza. E allargando il raggio d’azione alla regione di cui Almaty è capoluogo il viaggiatore può perdersi in una varietà paesaggistica che include tanto laghi dall’apparenza alpina come quelli smeraldini di Kolsay e di Kaindy (quest’ultimo noto per la foresta semisommersa che ospita al suo interno) quanto canyon in odore di Arizona

Come non bastasse, Almaty parte avvantaggiata sin dalla toponomastica. Alma-Ata significa infatti “padre delle mele”, nome che – al netto della veridicità della leggenda che colloca qui l’origine del frutto – rievoca di per sé un luogo fertile e ubertoso. Agli antipodi si colloca l’avversaria. Fondata da cosacchi siberiani nel 1824, quella che nasce come nulla più di un avamposto militare viene battezzata Akmolinsk, dal termine kazako per “mausoleo bianco”. In un’epoca facile alla mitizzazione quale quella sovietica, per pavesare di pionieristico entusiasmo la conquista delle desolanti vastità del Kazakhstan settentrionale nel 1961 si decide di ribattezzare il centro Tselinograd (russo per “città delle terre vergini”) per poi tornare ad Akmola alla caduta dell’Urss. Il punto di svolta arriva nel 1997, quando viene deciso che la città di circa 300 mila abitanti sarebbe diventata capitale del Kazakhstan indipendente. Le ragioni della decisione sono varie e spaziano dall’emulazione del trasferimento della capitale turca da Istanbul ad Astana intrapreso da Mustafa Kemal Ataturk alla perifericità geografica di Almaty, passando per questioni di equilibri etnici e ricerca di ampi spazi adatti alla speculazione edilizia. Quest’ultima è certamente stata sostenuta da una crescita demografica esuberante che vede oggi vivere nella capitale kazaka oltre un milione e centomila persone. Capitale che nel 2019 è stata nuovamente ribattezzata. La scelta è caduta su Astana, fino a poco tempo fa nota come Nur-Sultan,, nome del primo presidente del Kazakhstan indipendente, il Nursultan Nazarbaev alla guida del Paese dal 1991 all’agosto 2019 e artefice principale della creazione di una metropoli ancora bambina.

L’opportunità di creare una metropoli quasi dal nulla è piuttosto rara e dà la stura alla creatività di architetti e urbanisti. Nel caso di Astana, già Nur-Sultan, il risultato è nel complesso di difficile valutazione dal punto di vista prettamente estetico. Nel nuovissimo centro della capitale, spiccano edifici firmati da eminenti architetti la cui fama incontrastata fa a pugni con un impatto visivo quanto meno contestabile, in un pot-pourri definibile – per scomodare Gozzano – come coacervo di “buone cose di pessimo gusto”. Lungo e attorno al centralissimo Nurzhol Bulvar si susseguono ardimentose costruzioni il cui fine ultimo è mostrare al mondo che anche un Paese appena trentenne con una capitale poco più che ventenne è in grado di stupire il visitatore forestiero, abbacinato dalla ricercata ostentazione del kitsch. Il palazzo presidenziale Ak Orda (letteralmente “orda bianca”) si impone alla vista con marmi, vetrate e una cupola blu e oro coronata da una guglia che raggiunge gli 80 metri. All’altro capo del viale svetta il Khan Shatyr, una struttura trasparente ispirata alla iurta (la tipica tenda dei nomadi centrasiatici) alta 150 m e realizzata in etilene tetrafluoroetilene secondo un progetto dell’architetto britannico Norman Foster; non è necessaria un’esegesi approfondita per cogliere la volontà di fondere in un’unica costruzione tradizione e innovazione in salsa turbocapitalista, come ben rappresentato dal centro commerciale ospitato all’interno del Khan Shatyr. A metà strada tra gli edifici di cui sopra spiccano infine i 105 metri del Bayterek, una torre bianca ispirata alla leggenda kazaka di un uccello della felicità che avrebbe deposto tra i rami di un pioppo un uovo dorato; anche in questo caso, l’opera è figlia della ricerca di una sintesi tra miti eziologici e progresso funzionale alla fondazione di un nuovo nazionalismo post-sovietico, condito da simbologie quali i 97 metri di altezza a cui si trova il belvedere, richiamo al 1997, anno di nomina dell’allora Astana a capitale del Kazakhstan indipendente.

Seppur di discutibile gusto, l’architettura di Astana è capace di estrema loquacità. Esempio ne è la varietà degli edifici di culto, tra i cui scopi è certamente convogliare l’immagine del Kazakhstan come di un Paese crogiolo di etnie e fedi fuse in un brodo di coltura all’insegna della tolleranza. Se moschee e chiese ortodosse ospitano la maggior parte dei credenti del Paese, particolarmente significativo è il fatto che la capitale ospiti la sinagoga più grande dell’Asia Centrale, un edificio azzurro di ragguardevoli dimensioni per una comunità ebraica relativamente poco numerosa (e comunque più ristretta di quella di Almaty). Alla tolleranza religiosa, però, è dedicata esplicitamente l’altra opera dello studio di Norman Foster ad Astana, ossia il Palazzo della pace e della riconciliazione, una piramide di 77 metri d’altezza al cui interno ogni tre anni si riunisce il congresso dei circa duecento delegati delle principali religioni del globo. E a onor del vero va riconosciuto che il Kazakhstan – a differenza di altre repubbliche centrasiatiche – non conosce fenomeni di fondamentalismo religioso degni di nota.

Ad Astana ogni blocco di cemento, lastra di marmo o ammennicolo luccicante concorre alla narrazione di un Kazakhstan indipendente, economicamente forte e proiettato verso il futuro. Tale racconto, tuttavia, è ancora in fase embrionale e chi cerchi nella nuova capitale il calore di un’identità compiuta dovrà lasciarne il centro fantasmagorico, freddo di calcestruzzi e di storie. Sarà il caso di spingersi verso la vecchia città sovietica, con i palazzoni non certo affascinanti ma comunque intrisi di decenni di vite, in quartieri ai margini dello sviluppo esuberante della Astana del XXI secolo e per ora ancora in buona parte scampati a una febbre edilizia puntellata di stramberie. Arrivati nella città “vecchia” sarà meglio dirigersi verso la stazione ferroviaria, neppure lei scampata alla voglia di nuovo e diventata un ibrido tra l’edificio neoclassico originale e una struttura in vetro che richiama una serra. Lì andate allo sportello, comprate un biglietto per Almaty e – con sovrumana lentezza – lasciatevi alle spalle i viali senz’anima della capitale. Il Sud vi chiama, qui come altrove.

immagine Flikr

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