Michail Gorbačëv

È morto Michail Gorbačëv, l’uomo della speranza e del fallimento

La mattina del 25 dicembre 1991 il segretario generale del Partito comunista sovietico, nonché presidente dell’Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche, Michail Gorbačëv, andò in diretta televisiva annunciando al suo paese e al mondo le proprie dimissioni. Quel giorno la bandiera rossa venne fatta calare dal più alto pennone del Cremlino. L’URSS cessava di esistere. Ma, a dirla tutta, il paese non c’era già più da tempo. La sua uscita di scena non scatenò manifestazioni di piazza, nessuno a Mosca scese in strada a sostenerlo, e l’Unione Sovietica sparì dalla storia senza un grido.

Ed è questo un punto fondamentale. L’URSS non cadde a seguito di una protesta popolare, né fu l’esito di una lotta di liberazione o il risultato di aspirazioni democratiche. Mancava un progetto politico alternativo e coloro che cavalcarono la dissoluzione sovietica non seppero poi fare altro che promuovere le ricette neoliberiste imposte dalle istituzioni economiche occidentali. E se è innegabile che il processo di disgregazione fu accelerato dal colpo di stato dell’agosto 1991, è anche vero che le ricette economiche e sociali di Gorbačëv, note come perestrojka (ristrutturazione) e glasnost (trasparenza) furono inadeguate a riformare l’URSS.

Esse infatti furono, da un lato, il più alto tentativo di cambiare – per salvarla – un’Unione Sovietica che segnava il passo nei confronti dei concorrenti occidentali e crollava sotto il peso dell’inefficienza economica, ma, dall’altro, esse si fermarono a metà del guado, senza condurre a radicali cambiamenti. In altre parole, Gorbačëv non ebbe il coraggio di fare come in Cina, dove Deng Xiaoping si era fatto promotore di una transizione dall’economia pianificata a quella di libero mercato, riducendo il peso dell’ideologia nelle scelte economiche, rafforzando i poteri autoritari dello Stato e reprimendo con brutalità ogni dissenso, asserendo che “l’economia di mercato si attua anche nel socialismo”. Gorbačëv era convinto che il socialismo si potesse riformare salvandone l’essenza umanista, pacifista, democratica, e su questa illusione aveva cercato di concedere una graduale libertà di espressione, di impresa, di organizzazione politica, senza comprendere che la libertà non si può che dare tutta insieme, che una goccia sarebbe bastata a travolgere tutto.

In Russia, Michail Gorbačëv è ricordato come l’uomo che ha distrutto la potenza sovietica, facendo polvere dell’impero. Dopo di lui, furono anni di miseria, corruzione, estorsione, violenza. Anni in cui la speranza di vita crollò ai minimi storici e la diffusione della droga e dell’HIV raggiunsero vertici mondiali. In quegli anni le istituzioni occidentali hanno promosso riforme economiche di ispirazione neoliberista che hanno moltiplicato povertà e malcontento in Russia, senza curarsi delle condizioni materiali di una popolazione afflitta e disorientata. C’era la convinzione che la transizione al libero mercato avrebbe portato con sé la democrazia. Ma la transizione economica non si è mai davvero compiuta, e con essa è fallita la transizione politica. Lasciando cadere in rovina il paese, si sono gettate le basi per il revanchismo putinista. Quindi Putin è colpa di Gorbačëv? In un certo senso, lo è. Nel suo fallimento ci sono le basi del successo del regime putiniano, che ha costruito la propria legittimità sulla promessa, in parte mantenuta, di superare le difficoltà economiche degli anni Novanta e di garantire stabilità e progressiva crescita al paese.

In Occidente, Michail Gorbačëv è ricordato come l’uomo che mise fine alla Guerra Fredda, e per questo fu insignito con il Nobel per la Pace nel 1990, ma dietro a questa immagine positiva si celano molte scelte discutibili, dall’incoraggiamento del nazionalismo nel Caucaso, cui poi il Cremlino non seppe far fronte; al ritardo con cui rese noto il disastro di Cernobyl’; fino all’invio di mezzi blindati a Vilnius per reprimere l’indipendentismo lituano, uccidendo così tredici civili in una fallimentare operazione militare.

Certo, Gorbačëv fu anche colui che comprese la necessità di trasformare quella prigione a cielo aperto che era l’URSS e l’impossibilità di procrastinare le riforme necessarie. Nel discorso al 27° congresso del Pcus, nel febbraio 1986, fece una analisi impietosa del degrado politico, economico, tecnologico e morale del paese.

L’URSS si trovava tagliato fuori dalla rivoluzione telematica in atto; la competizione militare assottigliava le risorse dello Stato, pur mantenendo l’esercito a livelli di poco inferiori a quelli occidentali; la gestione centralizzata del sistema produttivo non si curava per nulla dell’efficienza, della redditività e della qualità della produzione causando elevatissimi costi per lo Stato e una cronica penuria di beni di consumo; l’agricoltura pagava ancora il prezzo della collettivizzazione forzata degli anni Venti; le esportazioni di materie prime (petrolio, gas, minerali) erano l’unica voce in attivo ma rendevano l’economia sovietica eccessivamente legata al valore di questi beni. Soprattutto, l’URSS era un paese di sudditi cui era negata la libera informazione, la coscienza individuale, il possesso di un appartamento, un semplice viaggio all’estero. Tutte le notizie venivano rivedute e corrette. Per fotocopiare i libri era necessario un nullaosta. Occorreva prenotarsi con un giorno di anticipo per ricevere una telefonata.

Gorbačëv individuò i problemi, ma non seppe risolverli. Si assunse il compito storico di essere l’uomo del cambiamento, ma le trasformazioni prodotte non portarono agli esiti attesi, anzi condannarono la Russia – e i suoi paesi satelliti – al disastro. Nella sua mente l’URSS sarebbe dovuta diventare capofila di un nuovo “socialismo dal volto umano” ed è questa la sua colpa più grave: aver associato al proprio fallimento quello del socialismo, confermando la vulgata liberista secondo cui non fosse possibile alcuna riforma, e che il socialismo sia unicamente sinonimo di rovina, repressione, inefficienza, omologazione. Il fallimento di Gorbačëv è anche la fine di un’idea, di una possibilità di “pensare diverso” alternativa ai dogmi del liberismo. Tutto questo morì quel 25 dicembre 1991.

La notte del 31 agosto 2022 è infine morto anche lui, Michail Sergeevič Gorbačëv, l’uomo che più di tutti alimentò speranze e delusioni di un secolo sfinito. Andrej Sacharov disse che non avrebbe scommesso dieci rubli su di lui. Quei dieci rubli sono il prezzo del nostro tempo.

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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