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EPA/RAMIL SITDIKOV / SPUTNIK POOL MANDATORY CREDIT

UCRAINA: La guerra e gli stadi, Belgrado, Varsavia e… Livorno

Gli stadi, in quanto “contenitori” dello sport più seguito al mondo, hanno sempre rappresentato una vetrina per veicolare messaggi specifici, nonché il retroterra ideale per sprigionare nuovi fermenti sociali. Basti pensare alla formazione del battaglione Azov, sviluppatasi intorno al Sect 82, gruppo ultrà di estrema destra del Metalist Charkiv; e, dall’altra parte, si pensi al luogo scelto da Putin per “battezzare” in pubblico l’inizio dell’operazione militare speciale russa: lo stadio Luzhniki di Mosca, ufficialmente davanti a 200.000 persone (benché lo stadio ne possa contenere al massimo 80.000!).

Qui ci concentreremo principalmente sull’accoglienza che la guerra ha avuto negli stadi lontani dalla Russia e dall’Ucraina, dove, del resto, molti dei luoghi consacrati al calcio sono stati bombardati e distrutti: la Donbass Arena di Donetsk e lo stadio di Chernihiv (dedicato a Yuri Gagarin) tra gli altri. Diciamo subito che, salvo alcune eccezioni, gli atteggiamenti degli ultras d’Europa nei confronti della guerra rispecchia quello tenuto dal loro paese d’origine.

Serbia, i Delije della Stella Rossa Belgrado

Gli ultras della parte biancorossa di Belgrado sono stati (tra) i primissimi a schierarsi, suscitando reazioni di vario tipo in tutta Europa. Nella sostanza i Delije hanno riconfermato la vicinanza ai loro fratelli ortodossi russi, anche in virtù di un gemellaggio che li lega agli hooligans dello Spartak Mosca; nella forma, hanno scandito diversi cori favorevoli all’invasione e all’amicizia con il popolo russo (“Russi e serbi fratelli per sempre”), nonché approntato una coreografia che li ha catapultati nuovamente sulle pagine dei notiziari del vecchio continente.

È il 17 marzo, si gioca il ritorno di Stella Rossa-Rangers Glasgow di Europa League, e nel settore più caldo del Rajko Mitić (Marakana) di Belgrado compaiono una serie di striscioni che ricordano le guerre intraprese dall’Occidente, in particolare dagli Stati Uniti, partendo dalla Corea per arrivare alla Siria passando inevitabilmente per la ex-Jugoslavia. Sullo striscione di chiusura si riporta il verso: “All we are saying is give peace a chance” della canzone di John Lennon (1969), mentre, tutto intorno, il ritornello della canzone viene addirittura cantato a squarciagola.

Ora, per quanto la mentalità degli ultras rifugga l’accostamento alla guerra prevalentemente per l’utilizzo delle sole mani nude negli scontri, siamo di fronte a una delle vette più elevate di ipocrisia pacifista: chi fa della violenza uno strumento quotidiano richiede che – a risolvere questa guerra – intervenga la pace! Considerando l’utilizzo a “macchia di leopardo” delle guerre citate per la coreografia, dove non si fa cenno a quelle dell’Unione Sovietica prima e della Russia poi, i cori scanditi a favore dell’invasione e della fratellanza serbo-russa sarebbero bastati a chiarire la posizione dei Delije.

Una posizione che, tramite il calcio, ha raggiunto anche la Stella Rossa di basket: impegnata il 3 aprile in Eurolega a Kaunas contro lo Zalgiris, la squadra di Belgrado si è rifiutata di reggere in mano lo striscione gialloblù Stop war. I Grobari (becchini) del Partizan, dal canto loro, hanno ripetutamente esposto la bandiera della Russia sulle gradinate, ma non si sono mai spinti fino ad organizzare una coreografia. In compenso, l’allenatore di basket del Partizan, Željko Obradović, in conferenza stampa si è domandato il perché di tutto questo interesse intorno alla guerra in Ucraina, mentre nessuno avesse fatto lo stesso ai tempi dei bombardamenti in Serbia da parte della NATO nel 1999, né ai tempi dei conflitti in Iraq, Afghanistan, o Siria.

Polonia, i Legioniści del Legia Varsavia

Rispetto alla Serbia, negli stadi polacchi le posizioni sembrano diametralmente opposte. Da un recente sondaggio del “Guardian”, del resto, è proprio in Polonia che si riscontra la maggior parte della popolazione con un giudizio negativo della Russia in genere (87%). Gli ultras del Legia Varsavia, i cosiddetti Legionisći, tale predisposizione nei confronti dell’invasione russa l’hanno palesata immediatamente. Dapprima sulla balconata dello stadio Narodowy di Varsavia, al centro del settore più caldo, è comparso lo striscione Putin chuj (Putin coglione); mentre, in trasferta a Poznań contro gli acerrimi rivali del Lech, il 9 aprile i Legioniści hanno srotolato un enorme lenzuolo con la raffigurazione di Putin con il cappio al collo e la maglietta dello Spartak Mosca (con cui pure gli ultras del Lech vantano un’amicizia). Le foto e il video della coreografia hanno attirato l’attenzione dei media mondiali.

La Polonia è risultata anche il paese in cui le partite di beneficenza disputate dallo Shakhtar Donetsk e dalla Dinamo Kiev, il cui incasso è stato devoluto alla causa ucraina, hanno riscontrato il maggior successo. In uno di questi incontri, quello disputato ad Atene tra Olympiakos e Shakhtar, su 176 seggiolini dello stadio Karaiskakis sono stati sistemati 176 giocattoli e peluche in ricordo dei 176 bambini uccisi (fino ad allora, il 9 aprile) nel corso della guerra. D’altro canto, l’amichevole già organizzata tra Dinamo Kiev e FCSB di Bucarest, è stata annullata per le dichiarazioni del patron della squadra rumena Gigi Becali, che aveva definito il battaglione Azov come un gruppo nazista.

 La situazione in Italia

Sulle tribune dei nostri stadi la situazione è decisamente più “fluida” rispetto ad altre realtà, per quanto in forma ufficiale il sostegno all’Ucraina sia certamente maggioritario: basti pensare che alcune partite (Juventus-Inter di campionato e Milan-Inter di Coppa Italia) non sono state trasmesse in Russia per via del pre-gara in cui sono andati in onda dei messaggi giudicati filo-ucraini da Mosca (un video di Shevchenko ha coinvolto San Siro in un caloroso abbraccio).

La tifoseria veronese è quella che, per prima, sfruttando la cornice della guerra ha fatto breccia tra i vari media. Con uno striscione appeso fuori della recinzione del Bentegodi, gli ultras scaligeri della Curva Sud hanno riportato le coordinate di Napoli “invitando” i russi (nella parte alta dello striscione erano disegnate le bandiere della Russia e dell’Ucraina) a bombardare la città sul Golfo, ovvero a compiere a Napoli quanto stanno facendo in Ucraina. Uno sfottò decisamente macabro, che però poco dice circa la posizione generale degli ultras gialloblù sulla guerra. Così come dice poco il cartello immortalato sulla tribuna dello stadio Franchi a Firenze, durante la partita di Coppa Italia contro la Juventus, in cui si leggeva: “Putin gobbo”. Una posizione che non può essere considerata rappresentativa di un’intera tifoseria, per quanto l’insulto sia tra i più sprezzanti se pronunciato da un sostenitore viola. Allo stesso tempo pare azzardato definire il gruppo Teste Quadre della Reggiana ultrà neofascisti, come accaduto sulle pagine di un noto sito, per la scritta comparsa su un muro della città: “Grazie Putin, bombardaci Parma!”

Negli stadi italiani, tuttavia, si segnalano anche situazioni in cui una tifoseria ha compattamente scelto una posizione specifica. A Livorno, in occasione della ricorrenza del 25 aprile, prima è stato srotolato uno striscione fuori dallo stadio: “Che mondo… L’invasione russa è atroce, 8 anni di bombe ucraine sono pace”, quindi le bandiere delle repubbliche separatiste di Donetsk e Luhansk hanno sventolato in curva Nord, tempio del tifo amaranto, durante l’intera durata dell’incontro col Figline. Una denuncia idealmente non troppo lontana da quella dei Delije della Stella Rossa, che però ci ha almeno evitato l’ipocrita richiamo alla pace!

immagine EPA/RAMIL SITDIKOV / SPUTNIK POOL MANDATORY CREDIT

Chi è Alessandro Ajres

Alessandro Ajres (1974) si è laureato all’Università di Torino con una tesi su Gustaw Herling-Grudziński, specializzandosi nello studio della lingua e letteratura polacca. Nel 2004 ha conseguito il dottorato di ricerca in Slavistica con un lavoro sull’Avanguardia di Cracovia, da cui scaturirà poi il volume Avanguardie in movimento. Polonia 1917-1923 (Libria 2013). Attualmente è professore a contratto di Lingua Polacca all’Università di Torino.

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