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TURCHIA E ARMENIA: la normalizzazione passa per Baku?

Negli ultimi mesi, Ankara e Yerevan hanno lavorato nell’ottica di una storica normalizzazione dei rapporti fra i due paesi. Ma finora i risultati sono pochi e le incognite del percorso restano tante

Le placide acque del corso mediano del fiume Aras segnano, per buona parte, il confine meridionale tra Turchia e Armenia. La gola scavata da millenni di erosione è in molti punti larga appena poche centinaia di metri; eppure, da trent’anni, nessuno può raggiungere la sponda opposta. Il confine è infatti chiuso dal 1993, quando la Turchia scelse di appoggiare l’Azerbaijan nel primo conflitto per il Nagorno-Karabakh. Tuttavia, le cose potrebbero presto cambiare.
I primi mesi del 2022 hanno segnato una storica riapertura dei canali diplomatici fra le due Repubbliche. Ad un primo incontro fra i rappresentanti dei due paesi il 14 gennaio scorso a Mosca, sotto l’egida del Cremlino, ne è seguito un secondo tenutosi a Vienna il 24 febbraio e, successivamente, il ministro degli esteri armeno ha partecipato all’Antalya Diplomacy Forum, organizzato da Ankara e svoltosi tra l’11 e il 13 marzo nella città turca, nella cui occasione ha dichiarato che Yerevan sarebbe stata pronta a ristabilire contatti diplomatici con Ankara e riaprire le frontiere. Insomma, tre indizi che potrebbero far prova di un concreto tentativo di riavvicinamento.

L’ultimo incontro diplomatico fra le due parti risale all’autunno del 2009, quando, tramite la mediazione degli USA, sono stati portati avanti dei dialoghi in un’ottica di normalizzazione delle relazioni fra le due Repubbliche che hanno portato alla stesura di protocolli nella città di Zurigo. Tale tentativo è poi naufragato l’anno successivo, in particolare a causa delle pressioni esterne da parte dell’Azerbaijan, che, fortemente contrario ad un avvicinamento dell’alleato turco al nemico di Yerevan, aveva posto come condizione per l’accordo il ritiro completo dell’Armenia dal Nagorno-Karabakh, e di quelle interne, dettate sia dalle frange più nazionaliste della destra turca – intransigenti su ogni dialogo con gli armeni – che dal timore di Erdoğan di perdere voti a favore del primo ministro dell’epoca, Abdullah Gül.

Cosa ha spinto dunque Ankara e Yerevan a riprendere i dialoghi? Innanzitutto, vi sono da entrambe le parti importanti incentivi economici alla normalizzazione dei rapporti. La chiusura delle frontiere nel 1993 ha segnato infatti una cessazione quasi totale degli scambi commerciali fra i due paesi, basti pensare che nel 2021 l’ammontare degli scambi è stato di soli 3,8 milioni di dollari. In questo momento, di fronte alla crisi costante della lira turca, Ankara presenta una forte necessità di massicci investimenti esteri che le permettano di riequilibrare la bilancia commerciale e di bonificare un’economia storicamente dipendente dagli afflussi di capitali: in tale ottica, riaprire la frontiera con l’Armenia sarebbe vitale, in quanto significherebbe potersi nuovamente affacciare ai mercati caucasici e centro-asiatici, in particolare l’Eurasian Economic Union, creatura commerciale di Putin. Per Yerevan, invece, vorrebbe dire sottrarre alla Georgia il ruolo di centro economico degli scambi tra Teheran, Mosca e Ankara e, soprattutto, rompere l’isolamento economico nell’area e diversificare un’economia ancora totalmente dipendente da quella russa, che ne controlla quasi totalmente le importazioni, la fornitura di energia (peraltro a bassissimo costo) e la rete infrastrutturale ferroviaria.

A tale situazione si aggiunge poi un mutato scenario politico. Da parte turca, i tentativi di normalizzazione, portati avanti anche in altri contesti con gli Emirati Arabi Uniti, Israele e Russia, vanno inseriti nell’obiettivo della Repubblica guidata da Erdoğan di affermarsi come potenza egemone nella regione; in questo senso, dunque, è facile comprendere come il ristabilire rapporti pacifici con il vicino più prossimo rappresenti la prima, fondamentale pietra su cui poggia l’intero edificio. L’invasione russa dell’Ucraina ha poi segnato un completo stravolgimento delle dinamiche politiche dell’area. Per Yerevan, infatti, una normalizzazione con Ankara rappresenterebbe non solo un avvicinamento all’Occidente e alla sfera di influenza NATO, ma soprattutto la possibilità di rompere l’isolamento politico e svincolarsi anche geopoliticamente dalla – non più così gradita – influenza di Mosca, che sull’Armenia può vantare un importante controllo economico, accompagnato, dal 2020, dalla presenza sul territorio di forze militari con compiti di peacekeeping. A tal proposito, è indicativa la doppia astensione – che pesa quasi come un voto a favore – dell’Armenia nelle votazioni dell’ONU sulle sanzioni alla Russia e sulla sua possibile espulsione dal UNHRC.

Rispetto al 2009, però, è cambiata anche la posizione del terzo giocatore nascosto di questa strana partita di scacchi – l’Azerbaijan. La repubblica azera è infatti rafforzata da un decennio di profonda collaborazione con Ankara, sia dal punto di vista economico (l’ente nazionale petrolifero azero – SOCAR – è il primo investitore estero in Turchia, e due oleodotti e un gasdotto azeri raggiungono la penisola anatolica via Georgia) che da quello militare (dopo Israele e Russia, la Turchia è il paese dal quale Baku compra più armi, e le truppe azere sono formate da personale turco). L’Azerbaijan, inoltre, viene da una vittoria netta nel secondo conflitto per il Nagorno-Karabakh e, grazie all’interruzione della fornitura di gas russo all’Europa, si sta affermando come uno dei principali partner alternativi per l’approvvigionamento energetico dei paesi europei.
Tali mutate condizioni politiche e, soprattutto, la nuova posizione di forza della repubblica azera, appagata dalla vittoria nella guerra anche nelle sue frange più nazionaliste, potrebbero dunque rappresentare una garanzia di successo per il proseguo dei dialoghi turco-armeni. Ne è una prova la recente concessione armena all’Azerbaijan del permesso di costruire un’autostrada e una ferrovia nel corridoio di Zangezur, regione di importanza strategica che collega l’Azerbaijan con il Nakhchivan – territorio autonomo ma de facto sua exclave in territorio armeno – e dunque con la Turchia. L’importanza di tale concessione si evince dal fatto che la realizzazione di tali infrastrutture fino a pochi mesi fa veniva considerata – visto l’ipotetico utilizzo per spostamenti di truppe ostili a Yerevan – addirittura come un possibile punto di rottura per i dialoghi di normalizzazione turco-armeni. Tale storica decisione è stata preceduta da un intenso lavoro diplomatico fra i rappresentanti armeni e azeri, incontratisi a partire da dicembre in diverse occasioni, soprattutto attraverso la mediazione dell’Unione Europea, rappresentata dal presidente del Parlamento Europeo Charles Michel.

Di fatto, però, alle parole non sono seguiti ancora i fatti. Il ripristino della tratta aerea Yerevan – Ankara, operata dalla compagnia turca Pegasus e dalla moldava FlyOne, che all’inizio era stata letta come una prima conseguenza tangibile del riavvicinamento politico, è dovuta in realtà ad un semplice ripristino dello status quo del 2019, quando i voli tra i due paesi erano stati interrotti a causa del fallimento di Atlas Jet, la compagnia turca che offriva il servizio; il confine terrestre tra i due paesi, poi, resta tutt’oggi ancora invalicabile, persino per il personale diplomatico.

Nell’immaginaria stanza che ospita i talks, inoltre, vi è un grande, pesantissimo elefante. La questione del genocidio armeno, infatti, non è ancora materia di discussione fra i rappresentanti diplomatici dei due paesi; e sebbene tali incontri non siano forse la sede più appropriata per affrontare seriamente l’argomento (dal momento che essi mirano, in effetti, ad una normalizzazione dei rapporti, non certo ad una ben più complessa riconciliazione tra le parti), il genocidio rappresenta comunque ancora oggi il punto cruciale sul quale si gioca l’intera partita.

Da un lato, la Turchia persiste nella sua ferma opposizione al riconoscimento del genocidio, come testimoniano anche recenti fatti di cronaca, quali l’esibizione del segno dell’organizzazione ultranazionalista dei Lupi Grigi da parte del ministro degli esteri turco Çavuşoğlu direzionato a membri della comunità armena uruguaiana e la condanna di carattere prettamente politico dell’attivista Osman Kavala. Il governo di Yerevan, dal canto suo, non considera il riconoscimento turco del genocidio un prerequisito per il buon esito del tentativo di normalizzazione, e ciò ha contribuito ad aumentare l’ondata di proteste interne a cui l’esecutivo guidato da Pashinyan si trova a far fronte. Una cospicua parte di popolazione è, infatti, contraria non solo ad una pacificazione con l’Azerbaijan e ad una perdita territoriale del Nagorno-Karabakh, ma anche ad un dialogo con la stessa Turchia, ritenuta sia colpevole impenitente dei massacri di 107 anni fa che complice di quelli dell’ultima recente guerra con l’Azerbaijan, armato dalla repubblica turca.
Insomma, se la strada per la normalizzazione inizia a essere timidamente tracciata, quella per la riconciliazione appare ancora un lontano miraggio.

Immagine Wikimedia Commons

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