Balcani e Urss

Balcani e URSS, dalla cortina di ferro alla dissoluzione

I Balcani dietro e sotto la cortina di ferro, le relazioni con l’URSS, e poi la doppia disintegrazione, jugoslava e  sovietica, fino ai nuovi rapporti tra Russia e paesi post-jugoslavi. Un contributo di Michael L. Giffoni che integra i precedenti articoli sulla presenza russa nei Balcani…

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L’eccezione balcanica

L’influenza dell’Unione Sovietica nell’Europa centrale e orientale coincise ampiamente con l’area occupata dall’Armata Rossa alla fine della Seconda guerra mondiale: l’intero blocco orientale era sotto il controllo dell’URSS, così come i singoli eserciti subordinati a Mosca nel quadro del Patto di Varsavia, dietro quella che venne definita da Churchill come la cortina di ferro calata dal Baltico all’Adriatico. Vi era però una sorta di “eccezione balcanica”, o meglio “balcanico-occidentale” in questo granitico blocco dell’Europa centro-orientale, dovuta al fatto che in Jugoslavia e in Albania la liberazione dall’occupazione nazi-fascista era avvenuta grazie alla Resistenza locale e senza alcun intervento diretto dell’Armata Rossa: allo stesso tempo, i partiti comunisti di Jugoslavia e d’Albania avevano preso il potere senza l’aiuto delle armate sovietiche, determinanti invece negli altri paesi del blocco orientale.

La conversazione con Stalin

La conversazione tra Stalin e i massimi dirigenti comunisti jugoslavi risalente all’estate del 1945 e riportata da uno di questi ultimi, Milovan Gjilas nelle illuminanti “Conversations with Stalin”, rende bene le diversità di visione e d’impostazione sul futuro assetto balcanico nonché l’atmosfera di sospetto che, dietro l’apparente unità d’intenti del Comintern, vigeva fin dalle fasi finali della Seconda guerra mondiale tra il vertice del Cremlino e i dirigenti comunisti jugoslavi, che scorgevano bene la volontà di dominio russo insita nell’entusiastica adesione da parte di Stalin all’idea di creare una Federazione balcanica tra Jugoslavia, Bulgaria e Albania, che effettivamente non venne mai esplorata e perseguita in maniera convinta e tramontò definitivamente con la “crisi jugoslava” del giugno 1948, con la definitiva rottura tra Stalin e Tito e la conseguente esclusione del Partito Comunista di Jugoslavia dal Cominform.

Ovviamente, l’anatema staliniano fu seguito dai paesi del blocco orientale che ruppero gradualmente i rapporti con Belgrado ma l’obiettivo di isolare la Jugoslavia e Tito non fu raggiunto, anzi fu quest’ultimo a rilanciarsi non solo grazie agli aiuti economici occidentali ma anche con una efficace e intraprendente politica interna ed estera.

Un ostacolo alla penetrazione sovietica

Dopo il 1948 la Jugoslavia ha costituito in effetti il principale ostacolo alla politica di penetrazione sovietica in direzione dei Balcani occidentali e del Mediterraneo, per la quale Stalin aveva cinicamente sostituito il concetto di solidarietà slava con quello dell’internazionalismo proletario. La riconciliazione tra i due paesi si manifestò con la visita di Chruscev a Belgrado nel maggio del 1956, tre mesi dopo il noto XX congresso del PCUS nel quale quest’ultimo aveva denunciato il culto della personalità del suo predecessore e avviato il processo di destalinizzazione: fin dal suo primo discorso all’aeroporto, Chruscev riconobbe i gravi errori di Stalin nei confronti “dei dirigenti e dei popoli jugoslavi”. Tuttavia, di vera riconciliazione non si potrà mai parlare perché la politica estera di “non-allineamento” e, sul piano interno, gli esperimenti di autogestione economica e di decentramento nonché gli elementi essenziali di quello che venne definito come il “titoismo originario” suscitarono sempre a Mosca una profonda e malcelata diffidenza, che si protrasse durante la decadente era Brezhnev a Mosca e l’ultima fase (anch’essa decadente) dell’era di Tito conclusa con la sua morte, il 4 maggio 1980.

Il caso albanese

Anche con l’altro paese balcanico del blocco comunista, l’Albania di Enver Hoxha, l’Unione Sovietica ebbe alterne relazioni: dopo essere stato il bastione dell’ortodossia stalinista ferocemente critico nei confronti dell’eterodossia titina (“quel duro e rozzo Hoxha, più realista del re, cioè più stalinista di Stalin”, definì una volta il leader albanese l’eterno – e normalmente prudente nei giudizi – ministro degli Esteri dell’era Brezhnev, Andrej Gromyko), dopo la destalinizzazione l’Albania si ritirò man mano dal blocco orientale fino alla rottura definitiva delle relazioni diplomatiche con Mosca nel 1962 e al graduale ritiro dal Patto di Varsavia concluso con l’uscita definitiva nel 1968. Ciò non coincise con un riallineamento con la Jugoslavia, anzi, la “sindrome da accerchiamento” nella quale l’Albania sprofondò negli anni ’70 – nonostante Hoxha avesse tentato di uscire dall’isolamento con l’apertura alla Cina di Mao che risultò più di facciata che effettiva – e dalla quale cercò di uscire solo alla morte del longevo dittatore, venne anche giustificata con la difficile condizione di dover fronteggiare l’infido “nemico slavo”, pur comunista, alle porte (orientali) e l’altrettanto infido nemico capitalista le cui luci brillavano dalle rive opposte dell’Adriatico.

Il declino degli anni Ottanta

Gli anni ottanta furono quelli del declino lento e inesorabile dell’ideologia comunista e del socialismo reale, nonché delle realtà sovranazionali e federali come l’Unione Sovietica e la Jugoslavia, incapaci di riformarsi e rilanciarsi sotto il peso dell’insostenibilità politica ed economica e del riemergere delle pulsioni nazionalistiche che portarono alla vera e propria “esplosione delle nazioni” successiva alla caduta del Muro di Berlino e alla fine dell’era dei blocchi.

E’ suggestivo rileggere le cronache della visita a Belgrado di Mikhail Gorbacev (durata ben cinque giorni) nel marzo 1988, presentata da entrambe le parti come una visita epocale “che avrebbe cambiato il corso della storia dell’URSS, della Jugoslavia, e dell’intera Europa centro-orientale”. Notando che la visita avveniva dopo un lungo braccio di ferro tra le autorità federali jugoslave e quelle della repubblica slovena, che era riuscita a far passare una serie di minime riforme nel senso di maggiore autonomia e decentramento, Susan Greenberg del New York Times così concludeva: “La Slovenia ha illustrato il punto più lontano che la società può raggiungere sotto uno stato a partito unico prima di giungere a un vero pluralismo politico, e al tempo stesso tutte le contraddizioni che emergono in questi sistemi quando scattano le vere spinte di libertà e riforma. Le limitate libertà conquistate in Slovenia non sono ancora considerate accettabili nel resto della Jugoslavia. Non è chiaro se anche il signor Gorbacev le accetti.

Negli anni immediatamente successivi abbiamo assistito al disfacimento della Jugoslavia e dell’Unione Sovietica, il primo drammatico e violentissimo, il secondo egualmente drammatico pur se meno cruento. Dal suicidio jugoslavo emergeranno dalle macerie materiali e morali della guerra dei dieci anni e dal periodo di fragile e incerto assestamento tuttora in corso, sette paesi post-jugoslavi (ai quali per completare il quadro balcanico occidentale va aggiunta l’Albania entrata in una lunga e tormentata fase di transizione post-comunista), dalla roulette russa o meglio sovietica, emersero invece quindici stati indipendenti post-sovietici che abbracciarono in gran parte il modello politico ed economico occidentale, per decenni demonizzato e combattuto dai sovietici. Iniziava una nuova era, per l’Europa e per il mondo intero, nonché per le relazioni tra Russia e Balcani, poiché la coincidenza tra questa sorta di “roulette russa” e di “suicidio jugoslavo” rese necessario stabilire su nuove basi i rapporti tra Mosca e i nuovi stati post-jugoslavi.

Chi è MIchael L. Giffoni

Michael L. Giffoni (New York, 1965), da diplomatico di carriera dal 1992 al 2014 ha ricoperto numerosi e delicati incarichi nazionali ed europei. Dopo aver trascorso gli anni ’90 in Bosnia e nel resto dell’ex-Jugoslavia in guerra, è stato Capo della Task-force per i Balcani dell’Alto Rappresentante per la Politica estera Ue, Javier Solana, poi per 5 anni primo Ambasciatore d’Italia in Kosovo (2008-2013) ed infine (2013-14) Capo Ufficio per il Nord Africa e la Transizione araba al Ministero degli Affari esteri.

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