ponte Irpin

Il ponte di Irpin, simbolo di grandezza e ferocia

Visual literacy è la capacità di interpretare e dare significato alle immagini cui – sempre più – veniamo sottoposti, oltre che di crearne a nostra volta. La guerra ci ha fatto comprendere una volta di più quanto sia importante il ruolo delle immagini che osserviamo, a partire dal riconoscimento di un fake fino ad un’appropriata lettura del messaggio in esse contenuto.

Il ponte di Irpin

Subito prima della diffusione delle immagini riguardanti la traslazione del Cristo della Cattedrale armena di Leopoli, di cui abbiamo trattato nel precedente articolo, inizia a circolare un’altra foto-simbolo di questa guerra: parte della popolazione della città di Irpin raccolta sotto un ponte crollato, distrutto da un attacco aereo russo, in attesa di poter evacuare. “Se cade per Kiev è finita”, scrivono i giornali italiani a proposito del ponte. In realtà, come sappiamo, Kiev non è stata presa; mentre 2.000 persone provenienti da Irpin hanno lasciato la città attraversando il letto del fiume in secca.

Tra le arti visive, soltanto il cinema ha provato ad esplorare il tema dell’annientamento di un ponte: in particolare, si registrano tre pellicole ispirate al romanzo Il ponte di San Luis Rey di Thornton Wilder (1927). L’opera del drammaturgo e scrittore statunitense è probabilmente quella più famosa legata alle sorti di un ponte: “Il venerdì 20 luglio 1714, a mezzogiorno, il più bel ponte del Perù si spezzò, precipitando cinque viaggiatori nell’abisso circostante”, si legge in apertura. Il film più recente tratto dal libro, dal titolo omonimo, è del 2004 (gli altri risalgono al 1929 e 1944) e aveva nel cast attori quali Robert De Niro e Harvey Keitel.

Al flop di quest’ultima pellicola si contrappone in maniera netta, invece, il successo ottenuto dal Ponte sul fiume Kwai (di David Lean, 1957), vincitore di otto premi Oscar nel 1958, probabilmente il film più famoso sulla storia di un ponte e della sua distruzione. La cosa interessante del Ponte sul fiume Kwai, oltre alla narrazione dell’insensatezza e della tragedia della guerra, è il fatto che i protagonisti costruiscano un ponte per poi distruggerlo essi stessi, come se l’ammissibilità visiva del crollo di una simile struttura fosse legata esclusivamente alla volontà dell’uomo che l’ha ideata. Si accetta il suo collasso solo se è determinato da chi ha eretto il ponte; viceversa, se sopraggiunge per un errore del calcolo umano o per cause belliche, si preferisce non vederlo (o farlo in tutta fretta, come nel caso dei ponti che vengono fatti esplodere nelle pellicole di genere militare). Del resto, altri film che abbiano provato a confrontarsi con il tema possono ricondursi alla fantascienza (Final destination 5, del 2011) o all’animazione (Gli incredibili 2, del 2018).

Il ponte è per eccellenza il simbolo del genio umano, della capacità concretizzata delle sue doti di architettura e ingegneria, nonché dell’unione tra popoli. Ci sono alcuni “magnifici” scatti del ponte di Irpin riverso a terra, sotto il quale si nasconde la popolazione (segnalo tra tutti quelli di Vadim Ghirda per AP, o di Fabio Bucciarelli), che fanno male quanto quelli che immortalano dei corpi distesi senza vita. Se pensiamo alle guerre in ex-Jugoslavia, una delle sequenze più dolorose è certamente quella che riprende l’esplosione del ponte di Mostar, simbolo da secoli di unione tra due comunità e delle meraviglie architettoniche cui l’uomo può dedicarsi.

Da un punto di vista più vicino alla trascendenza, il ponte rappresenta invece ciò che abbiamo di stabile e di saldo – perché ce lo siamo costruiti, o qualcuno lo ha costruito per noi – rispetto alla corrente dell’esistenza che fluisce al di sotto. Il tema è ricorrente nell’arte orientale, in particolare nelle incisioni dei grandi maestri giapponesi. Il celebre Ponte di Shin-Ohashi sotto la pioggia di Utagawa Hiroshige (1797-1858) ha ispirato il Ponte sotto la pioggia (1887) di Van Gogh, nonché i versi di Wisława Szymborska contenuti nella poesia Gente sul ponte (1986). Nello stile del pittore olandese, la corrente che fluisce sotto il ponte è molto più minacciosa di quella resa da Hiroshige; mentre la barca appoggiata sull’acqua pare molto più in difficoltà. Rispetto a questa visione, e alla pioggia che si abbatte tutta intorno, le persone che attraversano il ponte trasmettono una sensazione di sicurezza, ancorati come sono alla materia. Il senso dell’immagine, secondo Szymborska, sta proprio nell’immobilità dell’attimo catturato dall’artista, e non già in quella “corsa che non finisce mai” della gente sul ponte.

Il ponte di Irpin certifica dunque la follia umana, capace di annientare le meraviglie (materiali e spirituali) che ha creato in preda al raptus della guerra fino al punto di auto-annientarsi. Persino le macerie che proteggono la popolazione in fuga ci lasciano immaginare la grandezza di quello che potrebbe fare l’uomo senza la deriva violenta che lo caratterizza: il ponte, anche dopo essere stato colpito, conserva una funzione di estrema utilità, nascondendo i fuggiaschi.

La foto in esame penetra l’immaginario collettivo perché mette completamente a nudo l’essere umano: gli mostra al contempo la sua (possibile) grandezza, insieme alla ferocia che infine sembra prevalere sino a distruggerlo. I vari livelli dell’immagine ce la rendono particolarmente difficile da accettare. “Non so da dove provenga questa mia debolezza per i ponti/Forse perché vi incontravo gente/Simile a me/Mentre si muoveva nella mia direzione/Verso la propria riva”, scrive Tadeusz Śliwiak, autore polacco nato a Leopoli, nella poesia Drugi brzeg (L’altra riva).

 

 

Chi è Alessandro Ajres

Alessandro Ajres (1974) si è laureato all’Università di Torino con una tesi su Gustaw Herling-Grudziński, specializzandosi nello studio della lingua e letteratura polacca. Nel 2004 ha conseguito il dottorato di ricerca in Slavistica con un lavoro sull’Avanguardia di Cracovia, da cui scaturirà poi il volume Avanguardie in movimento. Polonia 1917-1923 (Libria 2013). Attualmente è professore a contratto di Lingua Polacca all’Università di Torino.

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