STORIA: Il discorso segreto di Chruščëv contro i crimini di Stalin

Dal 14 al 25 febbraio 1956 si tenne a Mosca il XX Congresso del Partito comunista dell’Unione sovietica: il primo dopo la morte di Iosif Stalin, avvenuta appena tre anni prima. Nella notte tra il 24 e il 25 febbraio, i 1.436 membri del Partito comunista sovietico, e una cerchia ristretta di leader comunisti di altri paesi, si riunirono a porte chiuse per ascoltare il discorso finale del segretario generale del Pcus, Nikita Chruščëv. Il suo “rapporto segreto”, che in realtà non rimase segreto a lungo, denunciò i crimini commessi da Stalin, e segnò l’inizio della destalinizzazione e del periodo storico passato alla storia come il “disgelo”.

I primi segnali di cambiamento erano apparsi già nel 1953, subito dopo la morte di Stalin, con l’emanazione della prima amnistia per i membri del partito imprigionati. Nei mesi successivi, si stima che più della metà dei prigionieri dei gulag, all’incirca un milione di persone, fu rilasciata. Per quanto le loro testimonianze raccapriccianti non potessero, naturalmente, venir raccontate pubblicamente, ebbero comunque un certo impatto sulla società sovietica.

Chruščëv, che dalle lotte di potere interne al partito era emerso vincitore, incaricò il caporedattore della Pravda e segretario del comitato centrale, Pëtr Pospelov, di istituire una commissione d’inchiesta sui crimini commessi durante le grandi purghe negli anni ’30. Il materiale raccolto servì come base per il “discorso segreto” del 25 febbraio 1956.

Le accuse

In un’arringa di quattro ore, iniziata poco dopo la mezzanotte, Chruščëv deplorò il culto della personalità” intorno a Stalin come pratica “estranea allo spirito del marxismo-leninismo”. Denunciò “gli arresti di massa e le deportazioni di migliaia e migliaia di persone” e le esecuzioni di membri di partito arrestati e fucilati sulla base di “accuse inventate e bugiarde”. Ricordò ai presenti come, in seguito al XVII congresso del partito, più della metà dei delegati presenti fu in seguito arrestata con l’accusa di crimini controrivoluzionari. Denunciò le deportazioni di intere popolazioni, dei karaciai, dei calmucchi, dei ceceni.

“Gli ucraini poterono evitare la stessa sorte solo perché troppo numerosi: non fu possibile quindi trovare una località ove deportarli. Se ciò fosse stato possibile, Stalin avrebbe deportato anche loro”, disse Chruščëv. Arrivò addirittura a denunciare gli errori di Stalin nella Grande guerra patriottica, accusandolo di non aver predisposto adeguati preparativi difensivi prima dell’invasione tedesca del 1941, e di aver indebolito l’Armata rossa epurando i suoi migliori ufficiali (qui il testo integrale tradotto in italiano).

Ritorno al principio leninista

Se, da un lato, il discorso riconosceva le aberrazioni e i disastri dell’era stalinista, dall’altro tracciava una netta linea di separazione, discolpando la leadership comunista del momento: “Il nostro Partito ha combattuto per la realizzazione dei progetti di Lenin relativi all’edificazione del socialismo. Si trattava di una lotta ideologica. Se, nello svolgimento di tale lotta, fossero stati rispettati i principii di Lenin (…) non avremmo certo avuto una così brutale violazione della legalità rivoluzionaria e molte migliaia di persone non sarebbero scomparse, vittime di questo sistema basato sul terrore”.

Era necessario, dunque, riaffermare il ruolo centrale di Lenin nelle “grandi conquiste del nostro partito comunista e del popolo sovietico, il popolo creatore”. L’appello al principio leninista rassicurava il Partito di essere sulla retta via: secondo la lettura fornita da Chruščëv, i crimini stalinisti rappresentavano una deviazione, e non andavano dunque ad inficiare la legittimità del progetto comunista.

Aggiunse che i membri del Politburo, di cui lui stesso faceva parte dal 1938, si erano accorti tardi che Stalin aveva iniziato ad abusare del suo potere, ritrovandosi “in una posizione estremamente difficile”. E se, da una parte, Chruščëv denunciò le deportazioni e gli arresti avvenuti durante le grandi purghe, dall’altra si guardò bene dal menzionare le vittime della collettivizzazione o i crimini commessi durante le annessioni della Polonia orientale e delle repubbliche baltiche.

Un terremoto politico

Nella trascrizione inviata ai leader comunisti degli altri paesi, alla fine del discorso venivano riportati “applausi tempestosi e sostenuti”. Chi vi partecipò sostenne invece che piombò un silenzio di tomba, e che alcuni ascoltatori dovettero lasciare la sala in preda a malori. Si dice che il segretario di partito polacco, Bolesław Bierut, morì di infarto mentre leggeva il rapporto. Indubbiamente, il discorso causò un terremoto politico, all’interno ma anche all’esterno del mondo comunista, a livello internazionale. Il partito comunista sovietico si ritrovò diviso, con una fazione stalinista pronta a difendere appassionatamente Stalin e la sua memoria, e un’altra pronta a proclamarlo “nemico del popolo”.

In occidente, il contenuto del “rapporto segreto” di Chruščëv trapelò grazie a Viktor Grajewski, un giornalista polacco e compagno della segretaria del politico comunista Edward Ochab. Grajewski, che era riuscito quasi “per caso” a mettere mano sul manoscritto segreto, si recò all’ambasciata israeliana a Varsavia per farlo fotocopiare, e l’ambasciata passò una copia ai servizi segreti israeliani, che la inviarono a loro volta alla CIA. Il testo integrale venne pubblicato sul New York Times il 4 giugno 1956.

Le reazioni

In Unione sovietica, il discorso intitolato “Sul culto della personalità e le sue conseguenze” sarebbe stato pubblicato soltanto nel 1988, ma si diffuse rapidamente, ben prima, attraverso canali non ufficiali. Il senso di smarrimento e di confusione che ne conseguì tra molti cittadini sovietici, in particolare i più giovani, educati alle lodi permanenti del “genio” e “padre delle nazioni” Stalin, fu particolarmente evidente in Georgia, la patria di Stalin, dove gli studenti scesero in strada a protestare contro la demolizione del loro idolo.

Le loro manifestazioni del marzo 1956, che nel giro di pochi giorni avevano paralizzato la capitale Tbilisi, terminarono con la cruenta repressione da parte dell’esercito sovietico. Ma anche i cittadini che, furibondi, in diverse città sovietiche rovesciarono busti e incendiarono ritratti di Stalin vennero arrestati immediatamente con l’accusa di chuliganstwo (teppismo).

L’impatto fu ancora maggiore nei paesi “fratelli”: A Poznań, in Polonia, scoppiarono scioperi e proteste di massa contro il governo filostalinista, represse nel sangue dall’esercito polacco. In Ungheria, la rivolta contro il partito comunista venne sedata dalle truppe sovietiche, causando la morte di almeno 2.500 persone. Nella DDR invece, le ferite della rivolta del 17 giugno 1953 erano ancora troppo fresche, e non vennero registrati tumulti. Se da un lato Chruščëv migliorò i rapporti con la Jugoslavia di Tito, dall’altro peggiorò quelli con la Cina di Mao Zedong e successivamente con l’Albania di Enver Hoxha, che lo accusarono di revisionismo. 

Speranze di “disgelo” presto svanite

Le speranze che l’era del “disgelo” aveva suscitato sarebbero presto svanite. La destalinizzazione condotta da Chruščëv rimase incanalata in argini ben delimitati, e nonostante la liberazione e l’amnistia di centinaia di migliaia di prigionieri, la parziale liberalizzazione in ambito artistico e letterario e l’introduzione di riforme economiche e sociali volte a migliorare lo standard di vita dei cittadini, non portò a una riforma profonda del sistema. Alcune concessioni libertarie furono poi ritrattate nel corso degli anni ’60.

Che il leader sovietico fosse genuinamente convinto di poter condurre “il popolo sovietico lungo la via leninista a nuovi successi, a nuove vittorie” o meno, scoprì ben presto che riformare il sistema, conservandolo al contempo, era più complicato del previsto. Soltanto dieci anni dopo il suo discorso, e in seguito ad una serie di errori clamorosi come la gestione della crisi dei missili di Cuba, fu spodestato dai suoi oppositori interni al partito.

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Immagine: Chruščëv e Stalin durante una riunione nel 1936, ancora amici

Chi è Eugenia Scanferla

Ha studiato Scienze Politiche all'Università di Bologna e Storia dell'Europa Orientale all'Università di Bielefeld (Germania). Si occupa di storia del dissenso, ecologia e movimenti ambientalisti in Est Europa, politiche e culture della memoria nello spazio post-sovietico. Attualmente vive a Berlino.

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