Lo scorso 9 gennaio, a Banja Luka, si sono celebrati i vent’anni della proclamazione della Republika Srpska: una proclamazione anticostituzionale e criminale.
La nascita della Republika Srpska risale al 9 gennaio 1992, quando le guerre balcaniche erano agli albori e quel mito chiamato Jugoslavia cominciava il proprio suicidio. Radovan Karadžić – criminale di guerra sotto processo all’Aia – proclamò la nascita della Repubblica Serba di Bosnia, divenendone presidente (non eletto) ed avocando a sè la maggior parte del territorio bosniaco. Karadžić, in qualità di presidente della RS, non aveva altre funzioni se non di “vicario di Bosnia” delle politiche nazionaliste orchestrate da Milošević: l’unione di tutte le terre serbe sotto l’ala della Madrepatria, in accordo al motto Samo Sloga Srbina Spašava (solo l’unione salverà i serbi) le cui 4 S – in cirillico C – sono tutt’ora uno dei vessilli nazionali dell’odierna Republika.
Era allora l’inizio della fine. Appena due mesi più tardi, il primo marzo ’92, il referendum per l’indipendenza della Bosnia Erzegovina venne boicottato dalla popolazione serba e nell’arco di poche settimane la guerra cominciò ufficialmente.
Come si sa, l’esercito della Srpska godette dell’indispensabile appoggio di Milošević e il disegno nazionalista di Karadžić, destinato a „ripulire“ i territori rivendicati, si fece realtà.
Gli accordi di Dayton del ’95 misero fine agli scorrimenti di sangue e al mandato di Karadžić (latitante fino al 2008), dando vita ad un sistema istituzionale che di fatto persegue la pulizia etnica sotto altre forme. Il riconoscimento internazionale dell’esistenza delle due entità non è altro che la congelazione del fronte di guerra; ed una legittimazione delle politiche e delle retoriche che l’avevano scatenata; inoltre, il trattato di pace mina alla base le possibilità di una Bosnia Erzegovina realmente unita e funzionale per tutti i suoi cittadini, avendo lo stato centrale competenza esclusiva solo su poche materie.
L’errore principale a Dayton fu proprio quello di non aver dato a Sarajevo, in qualità di Stato centrale, l’autorità politico-governativa necessaria a qualunque paese sovrano, riconoscendo invece l’autorità „disgregativa“ delle fazioni uscite dal conflitto, incarnate nella struttura delle due entità. Altro errore fu la mancata condanna dei tre partiti etnonazionali – SDA, HDZ e SDS –, causa e conseguenza reale della guerra.
Dal ’96 al ’98, presidente della RS fu Biljana Plavšić. Una signora di sessant’anni, biologa e docente universitaria, compagna di partito e stretta collaboratrice dello stesso Karadžić. Annoverata tra i più accesi nazionalisti serbi, famosa per le sue innumerevoli dichiarazioni e condotte ultranazionaliste: come „il bacio all’eroe“, quando nel marzo ’92 si recò a Bijeljina per complimentarsi con la „Tigre Arkan“, responsabile del primo massacro contro la popolazione musulmana; o ancora, quando a proposito dei bosgnacchi dichiarò che erano „originariamente serbi, geneticamente deformati in quanto convertiti all’Islam“. Nel 2001 viene incriminata per crimini di guerra e contro l’umanità dal Tribunale Penale Internazionale per l’ex-Jugoslavia (ICTY), al quale ammette parte delle colpe solo per ottenere uno sconto della pena (11 anni): giudicata colpevole, esce dopo 6 anni per buona condotta.
Con la presidenza Plavšić, termina anche l’era del SDS ed inizia l’ascesa politica di Milorad Dodik. La storia della Republika Srpska è infatti intrecciata con la figura di quest’uomo, nato nelle campagne di Banja Luka: passato dall’aratro al contrabbando, per poi finire in Parlamento e divenire quindi „Presidente-padrone“ della RS.
Milorad Dodik, di estrazione contadina, con lo scoppio delle guerre si dedica al contrabbando di nafta e tabacco dalla Serbia e dalla Krajina. Nel ’90 viene eletto nel parlamento della Repubblica Socialista di Bosnia Erzegovina tra le fila dei riformisti. I legami stretti con gli uomini chiave di quell’élite composta da signori e profittatori di guerra, gli consentono di farsi una posizione politica ed economica di tutto rispetto, pur non rimanendo invischiato nel vortice criminale di Karadžić e compagnia. La Plavšić lo raccomanda calorosamente quando nel ’98 diviene Primo Ministro e Madeleine Albright (ex segretario di Stato USA) lo saluta come una „ventata d’aria fresca“. Cambia il partito di governo (Unione dei socialdemocratici indipendenti – SNSD) ma l’aria non cambia: i suoi sforzi politici si concentrano su una serie di privatizzazioni a base clientelare e nepotista, nell’area occidentale, sviluppata ed urbanizzata, per limitarsi alle consuete promesse indipendentiste panserbe nelle depresse e rurali regioni orientali. Alcuni anni fa, lo scandalo più celebre: un fondo di 3 milioni di marchi (1,5 milioni di euro) che l’istituto di credito per lo sviluppo della RS concesse alla fabbrica di frutta di suo figlio.
Il suo sogno eterno è l’autentica indipendenza della sua Srpska dal resto della Bosnia. Eletto Presidente nel 2010, ha cominciato, passo dopo passo, a dar vita a questo sogno. Nel 2011 solo le pressioni dell’Alto Rappresentante Valentin Inzko impediscono lo svolgimento di un referendum per l’indipendenza della giurisdizione serba rispetto a quella statale.
Per Dodik, e per i suoi numerosissimi sostenitori, la Bosnia Erzegovina, la sua storia le sue istituzioni e persino la sua squadra di calcio, non sono rappresentanti del popolo serbo-bosniaco, che preferisce piuttosto identificarsi con i corrispondenti della vicina e amata Serbia.
Dall’altro lato, è ora che la Bosnia Erzegovina, quella musulmana quella ortodossa e quella cattolica, si faccia finalmente una, e prenda coscienza del suo ineluttabile destino comune: solo così si potrà parlare di un Paese veramente unito.
Bell’articolo, Giorgio, passionale e diretto.
Mi sembri un attimo ingeneroso però su Dayton: certo sarebbe stato bello che la fine della guerra vedesse una Bosnia “una e indivisibile”, centralizzata e multietnica. Ma per fare ciò, si sarebbe dovuto sconfiggere l’esercito serbo in maniera definitiva, prolungando la guerra – ossia con ancora più morti e più atrocità di quante ve ne sia già state. Dayton è un accordo che sacrifica la giustizia in nome della pace – si può non essere d’accordo, ma bisogna farci i conti.
Sulla Plavsic, c’è da leggere il capitolo su di lei nel libro di Slavenka Drakulic, “They would not harm a fly”: è l’unica dei criminali dell’Aja che si è guadagnata il rispetto della scrittrice per il modo in cui si è comportata nei processi, così come per essersi allontanata da Karadzic nel ’96. Forse il beneficio del dubbio glielo possiamo concedere.
Secondo voi è possibile dire che Dayton sia frutto di una “paura” di uno Stato in buona misura “islamico”?
Dayton e’ il frutto di un estenuante quanto inutile processo di mediazione diplomatica, che riusci FINALMENTE a metter d accordo le parti in conflitto senza pero’ far ottenere ad esse quello a cui realmente ambivano (da un lato una Bosnia unita e dall’ altro una grande Serbia, anche se di fatto questa seconda ipotesi ha paradossalmente piu’ attinenza con la realta’). Ripeto, un cosi basso numero di poteri centrali ed un cosi alto numero di burocrati locali, congiuntamente alla retorica partitica che di fatto non e’ cambiata da 20 anni sono i veri errori di Dayton.
per redazione: a volte mi faccio la stessa domanda…
Quando parliamo di uno Stato “in buona misura islamico” diamo la migliore dimostrazione che l’Europa é un nano politico, un nano che non é riuscito a gestire in modo organico il previsto, irrimediabile sfascio della Jugoslavia di Tito, un paese che, come tutti gli Stati dell’Europa Orientale, si manteneva su una dittatura appoggiata allla polizia segreta. Dayton fu la prova che senza gli Stati Uniti il nostro continente non é in grado di gestire le crisi, all’epoca l’Italia era spaccata tra le “anime belle” che accusavano D’Alema di essere un guerrafondaio, gli indifferenti che non volevano essere disturbati all’ora dei pasti da scene di guerra e inconfessati interessi economici.
Per capire (un minimo) Dayton ho trovato molto interessanti due letture:
1- “How to end a war”, di Richard Holbrooke, in cui indica passo per passo il sentiero negoziale verso il compromesso. Tra i punti in cui Holbrooke si duole ex post, vi è di non aver fatto abbastanza pressioni perché Banja Luka abbandonasse il titolo di ‘Republika’, cosa che al momento sembrava secondaria, ma che in seguito è apparsa fondamentare per la legittimazione interna della continuità tra RS pre- e post-bellica. Personalmente, infine, escluderei le paure di una “Bosnia islamica”; i bosgnacchi erano troppo deboli per darvi adito, e il concetto di “dorsale verde” è tornato in auge solo più tardi.
2- “Do good fences make good neighbour?”, un articolo di Nina Caspersen in cui mette a confronto gli aspetti consociativi e integrativi di Dayton. Secondo Caspersen, la scommessa dei redattori di Dayton era di mettere in atto un processo dinamico in due fasi: una prima, in cui venisse fermato il conflitto e spartito il potere; e una seconda, in cui istituzioni centrali (banca, corte, governo) accentrassero il potere e facessero ripartire uno stato efficace. E’ la realizzazione (o meno) di questa seconda fase che è in discussione oggi; ed è un passo fondamentale che la Bosnia si troverà a dover fare per poter un giorno divenire un candidato all’Unione Europea.
Quella di Dayton come “paura di uno Stato islamico” è un’ipotesi diffusa. Tuttavia, l’Armija bosniaca e le milizie musulmane – benché si stessero rafforzando – non sarebbero state in grado, in quella fase del conflitto, di conquistarsi da sole l’intera Bosnia o comunque una parte consistente di essa. Perlomeno, non senza rinunciare all’alleanza con i croati dell’HVO. Fu infatti l’offensiva congiunta Armija-HVO che arrivò quasi alle porte di Banja Luka. E fu in quel momento che arrivò l’ “alt” statunitense che congelò la situazione e portò a Dayton. Cosa che inizialmente irritò più Zagabria che Sarajevo.
Per Emilio: credo che lei si volesse riferire alla guerra del Kosovo (1999, epoca del governo D’Alema), perché ai tempi di Dayton (1995) l’Italia era governata da un incolore (in tutti i sensi, dato che si trattava di un governo tecnico) Governo Dini, e il ministro degli Esteri era Susanna Agnelli. Lungi da me difendere D’Alema, non m’azzarderei mai… 😀
Ora sono curioso, chi è che fa riferimento alla paura di uno ‘stato islamico’ per giustificare Dayton? Sapete indicarmi pubblicazioni sul tema?
(ipotesi inconsistente in sé, sin a partire dall’accordo di Washington sulla Federacja, per non parlare della debolezza militare dei bosgnacchi)
PS: sempre Holbrooke nelle sue memorie parla della decisione di far arrestare l’avanzata croata prima di Banja Luka, per evitare un nuovo bagno di sangue e perché l’obiettivo strategico di portare i serbo-bosniaci sotto al50% del territorio era stato raggiunto.
Reblogged this on i cittadini prima di tutto.
La Bosnia ed Erzegovina ai tempi di Tito aveva un senso, ora non piu’ !
Ovviamente l’autore non sa nulla di Republika Srpska. E’ solo una propaganda quest’articolo.
ahahah, propaganda! e per conto di chi? Del comintern? del minculpop? suvvia!
Propaganda dalla UE e Stati Uniti che non sono mai stati amichevoli verso la populazione serba. Perché non parlate un po’ dei 5 secoli passati sotto l’occupazione turca? Campi di concentramento croati?
La proclamazione di Kosovo infatti è una proclamazione criminale. Pero’ Occidente preferisce gli Albanesi ovviamente.
Perché non lasciate mai i Serbi vivere in pace.