archeologo Lukashenko

Come un archeologo nazionalista gettò le basi per il regime di Lukashenko

L’ascesa di Lukashenko al potere è stata fortemente influenzata dalla strategia politica nazionalista del Fronte Popolare Bielorusso guidato dall’archeologo Zianon Pazniak, che puntava tutto sul rispolvero della cultura e della lingua bielorusse, a discapito dei rapporti con la Russia.

Speciale dedicato al trentennale della dissoluzione dell’Unione Sovietica in collaborazione con Q Code

Per capire l’ascesa al potere di Aleksandr Lukashenko, considerato oggi l’ultimo dittatore d’Europa, non si può non fare un passo indietro e analizzare gli anni che hanno preceduto la sua prima vittoria alle elezioni presidenziali.

Gli anni della perestrojka in Bielorussia 

Nell’allora Repubblica Popolare di Bielorussia le aperture di Gorbačiov non erano ben viste dalla nomenklatura locale, considerata tra le più conservatrici di tutto il blocco sovietico. Furono altri, infatti, gli eventi che portarono la popolazione e ancor di più la classe intellettuale a capire che qualcosa doveva necessariamente cambiare. Il primo fatto, più conosciuto a livello globale, fu ovviamente l’esplosione, nel 1986, del quarto reattore della centrale nucleare di Chernobyl, in Ucraina. 

L’altro evento, meno noto al grande pubblico eppure fondamentale per capire quegli anni e ciò che è avvenuto in seguito, fu il ritrovamento, nel 1988, di un’enorme fossa comune alla periferia di Minsk. A scoprirla fu l’archeologo Zianon Pazniak. 

Chi è Zianon Paziank 

Pazniak, classe 1944, si laureò in arte nel 1967, lavorando poi come ricercatore in ambito artistico. Vittima di repressioni politiche e amministrative negli anni Settanta, perse il suo lavoro presso l’Istituto d’arte e si convertì in archeologo. È così che, nel 1988, si imbatté nelle fosse comuni di Kuropaty.

Kuropaty nella coscienza popolare 

Gli scavi portarono alla luce 500 fosse comuni nella foresta, fatto che aumentò notevolmente la coscienza nazionale dei bielorussi più di qualsiasi altro evento dell’era Gorbačiov. Fu aperta un’indagine ufficiale con lo scopo di stimare quanti corpi vi fossero sotterrati e soprattutto chi fosse il colpevole delle esecuzioni.

La Commissione incaricata dichiarò che nella fossa si trovavano i resti di circa trentamila persone, ma per Pazniak erano almeno dieci volte di più. Una perizia balistica stabilì che i proiettili usati erano stati realizzati tra il 1928 e il 1939, e parve subito chiaro che la strage fosse da imputare alle esecuzioni dell’NKVD degli anni Trenta. La propaganda di quegli anni, però, fedele alla memoria di Stalin, lasciò crede che si trattasse di azioni naziste. 

Pazniak rilancia il Fronte Popolare Bielorusso 

La scoperta di Kuropaty indignò il paese e scosse le coscienze, rendendo Pazniak tanto popolare da convincerlo a rispolverare un vecchio movimento degli anni Venti, il Fronte Popolare Bielorusso. Il FPB nacque ufficialmente nel 1989 con l’intento di guidare tutte quelle persone – ex membri del PCUS (pochi) e intellettuali (in gran parte) – che chiedevano un cambiamento nel paese. Se i temi che trattava erano trasversali e spaziavano dall’ambiente alla politica estera, il cavallo di battaglia del movimento era senza dubbio l’identità nazionale. Un tema così esacerbato che portò, di lì a poco, al fallimento dello stesso FPB e alla conferma di Aleksandr Lukashenko. 

Gli anni della transizione 

La Bielorussia dichiarò la propria sovranità già nel 1990, poco dopo le prime elezioni “democratiche”, in cui il FPB si aggiudicò il 15% circa dei voti insieme ad altri movimenti. Nonostante questo, il referendum promosso dallo stesso Fronte per votare l’uscita dall’Urss fu un fallimento: la popolazione restò salda all’Unione, un indicatore importante di quel che sarebbe successo negli anni successivi. La storia però fece il suo corso, e nel 1991, con gli accordi di Belovezha, la Bielorussia si dichiarò indipendente.

A capo del nuovo Stato di Belarus c’era Stanislav Šuškevič, figlio di un poeta e vicerettore dell’Università Statale di Minsk, che provò in qualche modo a riformare il paese: dopo il suo arrivo si registrò un importante sviluppo delle imprese private; nacquero i primi media indipendenti; vennero organizzati incontri di politica internazionale e nel 1992 vennero aperte le prime ambasciate straniere a Minsk. Ma Šuškevič era perennemente in bilico tra le pressioni del FPB, che chiedeva riforme, apertura a Ovest, affermazione dell’identità nazionale, e la vecchia nomenklatura, ancorata al retaggio sovietico e ai legami con la Russia. 

Tra passato e futuro 

Se da una parte si assisteva al fiorire di numerose piccole aziende private, dall’altra le grandi industrie, quelle statali, risentivano pesantemente del distacco dalla Russia, da cui provenivano quasi tutte le materie prime e a cui erano destinati quasi tutti i prodotti finali. I dirigenti di queste aziende, spesso a loro volta legati al vecchio Partito, iniziarono così a scaricare la colpa della crisi sulla caduta dell’Unione Sovietica, unico sistema politico che poteva garantire un rapporto tanto simbiotico con la vicina Russia. 

Intanto proseguivano i tentativi di rilancio della cultura etnica. Ma fu la stessa strategia nazionalista, promossa soprattutto dal FPB, a causare maggiori danni alla transizione democratica. In particolare, l’uso del bielorusso fu reintrodotto in maniera quasi violenta, destabilizzando la popolazione.

Tra il 1992 e il 1993 ci si avviò verso un movimento di “bielorussificazione” forsennato, quasi caricaturale, che voleva troncare col passato e proiettare il paese verso il futuro. 

Nei primi tre anni di indipendenza, le tendenze nazionaliste in Bielorussia avevano preso il sopravvento su quelle democratiche. Per quanto le sue intenzioni volgessero alla democrazia, anche il FPB stava dimostrando una mancanza di maturità politica e, soprattutto, una visione del paese che non corrispondeva alla realtà.

Le elezioni del 1994 

Dopo la destituzione di Šuškevič da capo dello Stato e un tentativo di Pazniak di indire nuove elezioni nel 1992 con la raccolta di centinaia di migliaia di firme in suo favore, finalmente, anche a causa del crescente scontento della popolazione, nel 1994 si tornò a votare. 

Il paese era ormai nel caos più completo: da una parte nascevano nuove imprese, ma quelle statali soffrivano del crollo dell’Urss; mentre si creavano nuovi media indipendenti, la censura restava la stessa degli anni passati. Ma soprattutto, molte persone venivano escluse dal lavoro e dalla vita pubblica se non parlavano bielorusso, cosa che era piuttosto comune all’epoca. E fu proprio questo fatto, oltre a una crescente nostalgia per i tempi dell’Unione Sovietica, a portare alla vittoria e alla conferma, poi, di Aleksandr Lukashenko.

Alle elezioni del 1994 si presentarono ben diciannove candidati, ma furono ammessi soltanto in sei. Oltre a Kebič (primo ministro) e Šuškevič, figuravano ovviamente un giovane Aleksandr Lukashenko e Zianon Pazniak. 

Lukashenko – l’unico ad aver votato contro gli accordi di Belovezha dell’estate del 1991, membro del comitato anti-corruzione del parlamento – aveva contribuito, facendosi conoscere, alla destituzione di Šuškevič, accusandolo di reati gravi. La sua retorica fece il resto: capace di parlare al popolo, di andare a colmare quel sentimento di smarrimento che condividevano tutti i bielorussi, troppo lontani dalle proposte stereotipate di un membro del partito come Kebič, dal linguaggio troppo intellettuale di Šuškevič e dal nazionalismo esasperato di Pazniak che aveva creato ben troppi danni, Lukashenko appariva quindi come una specie di uomo della provvidenza, un salvatore. 

Il Bat’ka, appunto, del popolo. 

La conferma di Lukashenko 

Nessuno, nel 1994, prese sul serio Lukashenko, che si portò a casa l’80% delle preferenze. Ma questo non fu il momento di maggiore successo, per lui. L’apice del suo gradimento arrivò appena un anno dopo ed è quello che ancora oggi gli permette di avere una sottostruttura di fedelissimi che credono in quel che dice e promette. Nel 1995 venne infatti indetto un referendum che pose diverse questioni, in particolare quella linguistica, che affermò quasi un 90% di preferenze a favore del mantenimento del russo. Tutto il lavoro di Pazniak e del Fronte Popolare venne spazzato con quel voto: anche la bandiera tornò a essere quella sovietica, così come l’emblema nazionale. Un altro dei temi tanto cari all’archeologo, l’apertura a Ovest e al capitalismo, venne schiacciato dalla maggioranza di preferenze a favore dell’integrazione con la Russia.

Nei mesi successivi, Lukashenko indisse un altro referendum, sciolse il parlamento e ne formò uno bicamerale, violando diverse leggi del paese. 

Il caos creato dall’estremismo del FPB fondò le basi per le argomentazioni populiste e nostalgiche di Lukashenko, mettendo fine di fatto alla transizione democratica, nata e morta con le elezioni del 1994. Senza il nazionalismo di Pazniak, forse, la storia sarebbe stata diversa.

 

Immagine: Bladyniec per Wikimedia

Chi è Anna Bardazzi

Nata nel 1982 a Prato, si è laureata in Scienze Politiche con una tesi sulla Bielorussia di Lukashenko. Dopo aver vissuto diversi anni all'estero è rientrata recentemente in Italia, dove si occupa di contenuti digitali e traduzioni. Il suo primo romanzo, La felicità non va interrotta, è uscito a marzo 2021, edito da Salani. Collabora con East Journal dal 2020.

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