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BIELORUSSIA: Una “nuova” bandiera per capire le origini delle proteste

Gli osservatori più attenti avranno di certo notato come le migliaia di manifestanti bielorussi, scesi in queste settimane in piazza per contestare la più che ventennale presidenza di Aleksandr Lukašenko, non sventolino la bandiera ufficiale del paese. Al suo posto, invece, altrettante migliaia di tricolori bianchi e rossi. Cosa rappresenta, dunque, questo vessillo? Perché non viene usato il canonico motivo rosso-verde? E come si pone rispetto alla bandiera ufficiale?

Il tricolore biancorosso, tra storia popolare e ideali repubblicani

La scelta del tricolore è di per sé già rappresentativa: sin dalle origini, le bandiere a tre bande sono state vettore di un messaggio politico ben più profondo del semplice design. Il “tricolore” nasce infatti nel solco nazionalista e rivoluzionario già nel XVI secolo, quando le province ribelli olandesi si liberano dal giogo spagnolo e si costituiscono come stato sotto la guida di Guglielmo I di Orange-Nassau e la cosiddetta “Bandiera del Principe” (“Prinsenvlag”).

Ad ogni modo, non vi è tricolore più famoso del celeberrimo “Bleu-Blanc-Rouge”, simbolo della rivoluzione francese, poi esportato nelle “repubbliche sorelle” napoleoniche e con la “Primavera dei Popoli” del 1848 in ogni parte d’Europa (e non solo).

tricolore Francia
I primi tricolori: la “Bandiera del Principe” (sopra) e il tricolore rivoluzionario francese (sotto)

A seguire il design francese, non solo Italia, Irlanda, Messico e Romania. Anche in Bielorussia, a cavallo tra il XIX e il XX secolo, i primi circoli nazionalisti iniziano a radunarsi sotto l’insegna di un tricolore orizzontale, composto da una banda centrale rossa e contornato da due strisce laterali bianche.

È questo il vessillo usato dai dimostranti di Minsk, ma già ideato oltre cento anni prima dall’architetto Klawdziy Duzh-Dushewski, che lo realizzò ispirandosi agli stendardi di guerra delle truppe bielorusse nei ranghi dell’esercito del Granducato di Lituania e della successiva Confederazione Polacco-Lituana. Secondo un’altra teoria, la bandiera risalirebbe invece a una primitiva bandiera di guerra, realizzata involontariamente da un soldato che, pur ferito e sanguinante, issò il panno bianco che indossava e continuò a combattere issandolo sul campo di battaglia.

bandiera bielorussa
Il primo tricolore bielorusso, adottato nel 1918 dalla Repubblica Popolare Bielorussa.

La Pahonia

Un altro dei simboli adoperati dai manifestanti bielorussi è la Pahonia, lo storico stemma del Granducato di Lituania (XIII-XVI secolo) e della Repubblica Popolare Bielorussa (1918) .L’araldo rappresenta un guerriero che sguaina una spada su un cavallo rampante, e secondo la versione più accreditata, apparve la prima volta sulle effigi della cavalleria di Konstanty Ostrogski, santo cattolico e iconico comandante dell’esercito lituano nella battaglia di Orsha (1514) contro la Moscovia.

araldo Bielorussia
Un esempio di Pahonia risalente all’epoca della Confederazione Polacco-Lituana (ca. 1575).

Evoluzione storica dell’araldica bielorussa

Nell’inverno del 1917, esaltato dalle vicende belliche e dalla Rivoluzione russa di Febbraio, si sprigiona l’impeto patriottico in Bielorussia, dove i movimenti nazionalisti a lungo repressi organizzano i loro primi congressi legali all’insegna del tricolore nazionale. E, sempre sotto l’egida del vessillo biancorosso, nasce poco dopo – nel marzo del 1918 – la Repubblica Popolare Bielorussa (RPB), la quale ne adotta ufficialmente la bandiera.

L’anno seguente, tuttavia, l’avanzata dell’Armata Rossa e i successivi trattati di Brest-Litovsk sanciscono la fine dell’esperienza della repubblica popolare e la nascita della Repubblica Socialista Sovietica di Bielorussia, privata degli storici possedimenti di Bialystok, Smolensk e Vilnius. Mentre il governo in esilio della RPB mantiene il tricolore, la nuova amministrazione sovietica impone una bandiera monocromatica rossa, culminata da sigla federale e falce e martello, sulle cime dei palazzi governativi.

Bielorussia comunista bandiera
Una delle varianti bielorusse della classica bandiera rossa.

Sino a che, nel 1951, il clamoroso ottenimento di un seggio bielorusso all’ONU (subito eguagliato da Kiev) – nonostante Minsk fosse integralmente parte dell’Unione Sovietica – spinge la leadership comunista a differenziare l’araldica di Minsk. La classica “bandiera della vittoria” viene dunque rimpiazzata da un vessillo bicolore rosso-verde, pressoché identico a quello odierno fatta eccezione per l’iconico simbolo della falce e del martello.

La bandiera adottata dalla Repubblica Socialista Sovietica Bielorussa a partire dal 1951.

A questo punto, il negletto tricolore biancorosso rimane in uso soltanto alle associazioni e ai circoli della diaspora bielorussa sparsa in tutto il mondo.

L’araldica bielorussa rimane pressoché immutata sino al 1991, quando il crollo dell’Unione Sovietica vede infine risorgere, indipendente e sotto la ripristinata bandiera tricolore, la Repubblica bielorussa. Il ritorno alle origini dell’araldica, reso possibile dai membri del Fronte del Popolo Bielorusso tramite l’elaborazione del disegno di legge “Sulla Bandiera dello Stato della Repubblica bielorussa”, culmina il processo di riappropriazione dei simboli identitari nazionali intrapreso alla fine degli anni Ottanta dal Consiglio Supremo della Bielorussia.

La riconquista del tricolore ha tuttavia vita breve. Nel maggio del 1995, la tornata elettorale valida per il parlamento viene infatti arricchita da un referendum volto a rimodellare la facciata e la struttura del nuovo stato bielorusso.

I quattro quesiti proposti dal presidente Lukašenko coinvolgono questioni fondamentali non solo per l’esercizio e la delega della sovranità democratica, ma anche per l’identità nazionale bielorussa: si propone infatti di equiparare lo status della lingua russa a quella bielorussa; di avviare il processo di integrazione con la Federazione Russa (poi concluso con la creazione di un’entità sovranazionale priva di dogane); di consentire al presidente lo scioglimento del parlamento ed elezioni anticipate in caso di violazioni costituzionali sistematiche; e, infine, la modifica della bandiera e dei simboli dello stato.

Nonostante le violazioni segnalate dagli osservatori dell’OSCE, le riforme proposte da Lukašenko vengono approvate dai tre quarti dei votanti, con un’affluenza complessiva intorno al 65%.

L’esito del plebiscito, segnando la transizione a un modello “super-presidenziale” (o autoritario, che dir si voglia) ed iper-centralizzato, decide le sorti della Bielorussia indipendente e ne plasma sino ad oggi le sembianze.

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Il tricolore biancorosso (1991-95) e l’attuale bandiera ufficiale bielorussa (1995-oggi).

Il ritorno al rossoverde sovietico: centralizzazione, autoritarismo e repressione delle opposizioni

La questione simbolica del cambio di bandiera, che a prima vista può essere facilmente classificata di second’ordine, rappresenta invece il corollario su cui si fonda il disegno complessivo del percorso di Lukašenko. Nell’ottica di una crescente integrazione con Mosca e di una poderosa stabilizzazione del potere presidenziale, sarebbe difatti impensabile rivendicare simbologie terze e originali, capaci di evocare un senso di alterità dall’ordine delle cose ideato dal regime. Tale ragionamento ha valore sulla dimensione domestica come su quella internazionale.

Il ritorno al rossoverde – unito alla rimozione della Pahonia dal vessillo presidenziale – determina infatti non solo la volontà di continuità con il periodo sovietico e con il Cremlino che dell’URSS si considera diretto erede, ma anche e soprattutto la repressione del tricolore biancorosso, simbolo dell’opposizione parlamentare e dunque bollato dalla propaganda governativa come emblema “nazionalista”.

L’argomento su cui si regge la narrazione filogovernativa consiste in tutta la sua fallacia nel fatto che l’amministrazione collaborazionista del Comitato Centrale Bielorusso, nel periodo dell’occupazione nazista, adoperava una versione rimaneggiata della Pahonia insieme a bande da divisa adornate con il tricolore. Un fatto storico innegabile, certo, ma generalizzabile allora (con esilarante credibilità) anche al tricolore italiano, a quello francese e – perché no? – anche a quello russo. L’appropriazione indebita di un simbolo popolare da parte di una fazione politica non dovrebbe metterne in discussione significati e originalità; trasposto in termini italiani, lo stesso ragionamento equivarrebbe ad attribuire politicamente il tricolore a Mussolini invece che a Garibaldi.

bandiere e collaborazionismo
Sia il tricolore russo che quello bielorusso sono stati adoperati dai collaborazionisti durante il periodo bellico.

La repressione governativa di un simbolo

A dimostrazione della tesi, basti pensare che la presidenza Lukašenko non si è accontentata di rimuovere e sostituire i simboli incriminati, ma li ha anche repressi e oscurati laddove possibili. Il Guаrdian riporta ad esempio la testimonianza di Nina Baginskaja, cittadina 73enne arrestata innumerevoli volte (nonché condannata a devolvere la metà della propria pensione per pagare multe e contravvenzioni così accumulate) per aver “provocatoriamente” sventolato il tricolore biancorosso in pubblico.

Il caso sopracitato non è però unico. L’abuso di potere è infatti sistematico, e testimoniato da numerosissimi altri episodi simili, come quello di Siarhei Kavalenka, attivista legato al partito della Democrazia Cristiana (non registrato) già condannato a 3 anni di carcere (con sospensione della pena) nel 2010 per avere appeso un tricolore biancorosso in cima a un albero di Natale nel centro di Vitebsk; l’anno seguente, a seguito di “ripetute violazioni delle condizioni imposte dalla condanna precedente”, viene arrestato dalla polizia e incarcerato per 25 mesi.

Sport e politica

La raffigurazione e lo sfoggio di simboli proibiti ha avuto echi anche nel mondo dello sport. Il più eclatante, forse, nell’ottobre del 2010 durante una partita di UEFA Europa League tra Dynamo Minsk e KV Brugge. I tifosi della squadra della capitale, durante la trasferta belga, vengono assaliti da un sedicente “responsabile per i supporter bielorussi” in Belgio, il quale tenta a più riprese di sottrarre loro le bandiere incriminate.

Nel 2011, ancora, la FIBA Eurobasket Women (federazione internazionale di pallacanestro femminile) vieta esplicitamente l’uso di Pahonia e e tricolore biancorosso per gli incontri della nazionale bielorussa in Polonia, arrivando addirittura a rimuovere dalle mani dei tifosi emblemi e bandiere durante la partita contro la Lituania (la quale, curiosamente, adotta ufficialmente e rivendica la paternità dello stemma del Granducato). Nello stesso anno, in compenso, gli ultras del BATE Borisov si rendono partecipi di svariate risse interne al settore ospiti durante la partita contro i moldavi dello Sheriff Tiraspol. Causa degli scontri, le diverse combinazioni cromatiche delle bandiere portate in curva. Risultato finale: 15 arresti totali tra “biancorossi” e “rossoverdi”.

Infine, nel 2013, la Federazione Internazionale di Hockey su Ghiacchio (IIHF) ha ufficialmente bandito dagli stadi il tricolore biancorosso e la Pahonia per prevenire l’utilizzo di “simboli politici”, suscitando la reazione sdegnata della “Rada” dei Popoli della Repubblica Bielorussa, l’organizzazione politica più inclusiva della diaspora nazionale all’estero.

Eterogenesi dei fini? Repressione e “politicizzazione” involontaria di un simbolo popolare

Il tentativo di annichilire l’opposizione democratica nel paese potrebbe essere descritto come una spada di Damocle per il presidente Lukašenko. Se da un lato ha garantito stabilità al regime per più di un quarto di secolo, appare dall’altro evidente come la repressione del governo bielorusso abbia tuttavia finito per politicizzare un simbolo popolare tecnicamente neutrale. Non solo ha creato un simbolo per cui combattere e con cui identificarsi, ma lo ha anche regalato ai suoi oppositori.

Un errore imperdonabile, l’iconoclastia; e contro il quale a poco serviranno gli arresti e le perquisizioni. Ogni anno crescono in numero e fervore i partecipanti della marcia commemorativa del 19 settembre, durante la quale migliaia di bielorussi sventolano il tricolore in “Viale della Bandiera Nazionale”.

Ammesso e concesso che prima del 1995 il tricolore fosse effettivamente un simbolo nazionalista in senso contemporaneo, la sua repressione ne ha allargato la platea ed esteso l’efficacia identificativa; lo ha levato dalle mani dei nazionalisti tout court e reso simbolo del dissenso e della democrazia.

E così, ora, nessuno crede più alla menzogna del “tricolore fascista” o alla tesi della “rivoluzione colorata”, tentativo fuori tempo massimo di collegare le proteste di Minsk ad Euromaidan. Quella bielorussa non può essere infatti additata come una subdola guerra per procura; non esiste un potere occulto dietro alle rivendicazioni democratiche dei cittadini, così come non vi è metro di paragone con gli avvenimenti delle proteste di Kiev e i suoi sviluppi in Donbass.

Ulteriore prova di originalità della rivoluzione bielorussa è infine l’autosufficienza dei propri simboli. Il tricolore bielorusso sventola solo nelle piazze bielorusse, e a differenza di altri contesti post-sovietici (Georgia, Ucraina, etc.), pressoché mai apposto alle dodici stelle europee o alla rosa dei venti della NATO.

La riscoperta del vessillo biancorosso si pone dunque nel solco della tradizione democratica, sì patriottica, ma anche antiautoritaria e repubblicana. Esattamente come un tricolore, in virtù delle sue radici storiche, impone.

 

Immagine: Bloomberg

Chi è Guglielmo Migliori

Bolognese classe 1996, laureato in Relazioni Internazionali e Studi Est-Europei con un focus sulla sicurezza energetica. Ha studiato a Bologna, Maastricht, Mosca, e San Pietroburgo. Dopo aver lavorato a Belgrado nel settore commerciale, si è trasferito a Vienna per lavorare nel campo delle relazioni internazionali e della sicurezza energetica.

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