“Le città in cui non sono mai stato”. Intervista con Damir Čučić

Il Calvert Journal inaugura la seconda edizione del suo festival online dedicato al grande cinema dell’Europa orientale, dei Balcani e dell’Asia Centrale. La rivista londinese documenta da diversi anni le ultime novità della cultura e della creatività del cosiddetta macro-regione del “Nuovo Est”, con articoli di approfondimento, interviste, servizi fotografici e video-reportage. Dal 18 al 31 ottobre, l’evento proporrà 35 titoli, suddivisi in sette categorie: documentari, film d’animazione, lungometraggi di fiction, film degli studenti delle scuole di cinema, film sperimentali, cortometraggi e proiezioni speciali. I titoli saranno tutti disponibili per 48 ore sulla piattaforma Eventive.

East Journal ha intervistato cinque registi di cinque film che parteciperanno al festival. “Le città in cui non sono mai stato”, film di Damir Čučić, sarà disponibile a questo link il 28 e 29 ottobre.

“Le città in cui non sono mai stato” è un viaggio virtuale che, attraverso una serie di immagini astratte, affronta il tema delle grandi metropoli e delle problematiche legate al loro sviluppo e alla loro esistenza. Il cortometraggio di Damir Čučić porta lo spettatore in un mondo distopico, invitandolo a prendere parte attiva all’associazione tra le immagini astratte proposte sullo schermo e la realtà delle città presentate.

Partiamo dal titolo, Damir, perché proprio le città in cui non sei stato?

Prima dell’arrivo della pandemia Covid viaggiavamo spesso e il raccontare i nostri viaggi, anche con video e fotografie dell’avventura vissuta, era parte della nostra routine. “Le città in cui non sono stato” è nato prima della pandemia, ma è un film che parla dell’impossibilità di viaggiare, anche se questa impossibilità fisica non ci impedisce di viaggiare con la mente. Per farlo, di solito, utilizziamo gli strumenti della memoria e i miei strumenti, in questo senso, sono di natura digitale. Ho deciso così di creare con questi una storia sulle città in cui non sono mai stato. Il titolo, quindi, oltre a essere un gioco di parole, è un modo per dire che è possibile viaggiare anche in luoghi in cui non siamo mai stati.

Sento di dover supportare questa affermazione e voglio illustrare il processo con cui il film è stato realizzato. Il teleobiettivo registrava dei punti che generavano la luce, come in un proiettore, in un riflettore o nei fuochi d’artificio. In fase di produzione, si trattava principalmente di videomateriale di natura astratta. In postproduzione, il materiale è stato processato con diversi strumenti televisivi, che nel loro operato hanno generato diversi errori. Proprio da questi ho cominciato a creare il film. L’intero processo è stato trascritto sul videonastro e alla fine ogni frame dell’immagine è stato trasformato in un fotogramma: questo è stato l’ultimo passo di questo lavoro archeologico, in cui ho scelto tra milioni di fotogrammi solo quelli che alla fine hanno dato vita all’immagine delle città in cui non sono stato.

I miei viaggi virtuali non sono definiti o concepiti in anticipo. Parto e poi vado là dove mi portano il lavoro e l’errore della macchina con cui sto lavorando. Riconosco successivamente i luoghi in cui sono stato: la consapevolezza arriva dopo il risveglio, quando riguardo immagine per immagine il mio viaggio virtuale. Guardo 200.000 fotogrammi per ottenere un video di circa trecento immagini, che dialoga sempre con il titolo della sequenza. In ciascuna di queste cerco di presentare i processi di comparsa e scomparsa delle grandi entità urbane.

I titoli indirizzano lo spettatore alla lettura di ciascuna sequenza, presentando una caratteristica collegata alla città rappresentata. Queste caratteristiche sono esclusivamente negative: il sangue dei lavoratori di Dubai, lo sfruttamento della forza-lavoro minorile a Dacca o l’inquinamento di Città del Messico. Perché?

Le città rappresentate sono il riflesso delle mie osservazioni e di una personale scelta di eventi storici collegati con le grandi entità urbane, che penso in futuro andranno sempre più scomparendo, nel senso che saranno abbandonate dalle persone. E quando le persone vanno via, le città muoiono. La mia opinione è che le megalopoli non sono sostenibili, per questo gli esempi mostrati nell’unità filmica sono esclusivamente negativi. Cerco di intervenire in maniera associativa nella storia delle città in cui non sono stato. Nel caso di San Paolo del Brasile, ho messo in primo piano l’immagine della città sulla collina, sotto la quale si estende una delle più grandi baraccopoli del mondo. In seguito, ho riconosciuto dietro la città l’immagine di una bocca e così è nato il sottotitolo “La favela inghiotte San Paolo”. Nel caso di Gerusalemme, l’intera immagine si è mostrata immediatamente, perché avevo montato in precedenza molti documentari televisivi a tema religioso o di viaggio su questa città. Ho riconosciuto la Cupola della Roccia e il Muro del pianto e ho notato che questi due elementi compongono insieme quasi una maschera su un volto. Mi è piaciuto che la sequenza sia iniziata con lo spiegarsi del nastro e sia finita come un rumore digitale: mi ha fatto pensare all’idea di sparizione.

Uno dei denominatori comuni tra queste città è la problematicità del loro sviluppo accelerato, il cui dispiegarsi spesso non risulta eticamente accettabile.

Esattamente, nelle grandi città vivono milioni di persone senza diritti e senza un’adeguata assistenza sociale, mentre i giovani sono spesso senza prospettive perché non hanno prospettive nemmeno i loro genitori. Le immagini visive di queste città sono disegni astratti che pongono in primo piano un contesto socio-culturale, come indicato dai sottotitoli, che corrisponde al materiale video presentato. Allo spettatore si offre la possibilità di sviluppare un’associazione, con l’aiuto del sottotitolo, a partire dall’immagine astratta mostrata. Accogliendo questa proposta visiva, lo spettatore diventa sempre più attivo, perché è in costante attesa dell’associazione seguente, relativa alla città successiva. In questo viaggio virtuale, se la vogliamo dire tutta, non c’è spazio per la luce in fondo al tunnel. Tutto è distopicamente oscuro, grigio, congestionato e vicino alla disgregazione.

Non ci sono città europee…

In cantiere c’erano due città europee e gli eventi collegati alle stesse. Sono Roma e Dresda. Per Roma, ho lavorato all’evento avvenuto a Campo dei Fiori il 17 febbraio 1600, quando Giordano Bruno è stato arso vivo. Per Dresda, invece, avevo scelto il bombardamento del febbraio 1945, quando per due giorni la città è stata attaccata da oltre mille bombardieri alleati e rasa letteralmente al suolo. Questi due eventi, tristi per l’umanità, mi hanno ispirato e volevo vederli, ma sfortunatamente gli esperimenti visivi non hanno avuto successo. Sta anche in questo il fascino del lavoro sperimentale, dato che fino alla fine si lavora con la consapevolezza che i tentativi possono essere anche vani. Questa incertezza nella produzione del film è un dono perché ci tiene costantemente svegli e concentrati sull’esperimento. E così, in questo viaggio virtuale abbiamo perso la regione europea.

La prima volta che ho letto il titolo del film, con un’associazione non mediata, ho pensato alle Città Invisibili di Italo Calvino. Esiste un legame?

Ti ringrazio di questa associazione, ma direi che Calvino è un grande strutturalista, abilissimo nel combinare conoscenze e invenzioni: un sinfonico direi. Queste città sono solo una miniatura visuale, generata dalla tecnologia e dai suoi errori, che permettono anche a me di sbagliare durante la produzione. Per questo il mio lavoro è più un’improvvisazione, dalla quale può nascere una struttura solida, che però non si può nemmeno avvicinare alla precisione con cui lavora Calvino. Direi che io viaggio, ma non so mai dove andrò a finire: non c’è una struttura prestabilita. L’unica cosa di cui ero consapevole all’inizio è il fatto che, nella storia della registrazione sul nastro, il videonastro era uno strumento più economico e quindi è stato utilizzato come un mezzo transitorio. Perciò questa opera è una dedica al nastro, concretamente a quello magnetico, digitale e, infine, al film registrato sul nastro.

Foto: Bonobostudio

Chi è Dino Huseljić

Studente dell'Università di Pisa, cresciuto in Bosnia-Erzegovina e formato in Lombardia. Si interessa di Balcani e di tutto ciò che riguarda il calcio e la pallacanestro.

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