Dalla parte del negazionismo

Di recente abbiamo ampiamente parlato del genocidio armeno, il quinto anniversario della morte di Hrant Dink, giornalista di origini armene ucciso dal nazionalismo turco, ci ha permesso di entrare nell’argomento offrendo un punto di vista non solo storico. Abbiamo pubblicato, in traduzione dal turco, un paio di articoli di Dink e ci siamo soffermati sulla questione della legge, promulgata in Francia, che condanna al carcere chiunque neghi il genocidio armeno. Una legge che ha congelato i rapporti tra Ankara e Parigi in quanto la Turchia non ha intenzione di riconoscere il genocidio che ha compiuto dagli stessi turchi nel 1915. Com’è nel nostro stile, gli articoli sul genocidio armeno sono stati per noi scritti da un giovane giornalista turco. Crediamo che questi, come altri articoli qui pubblicati, ci mettano al riparo da qualsiasi accusa di “revisionismo” et similia.

Vietare il negazionismo, alla faccia di Voltaire

Fatta questa premessa, ecco che la legge francese offre l’opportunità per parlare di negazionismo. E’ infatti contro coloro che negano il genocidio armeno che si scaglia la legge punendo il reo con il carcere e una salata multa. Ciò avviene non solo in Francia, ma anche in Germania, Austria, Belgio, Spagna. Vengo subito al punto: la trovo una legge che non rispetta le più fondamentali regole democratiche, aliena dai principî di tolleranza che ci derivano dal vecchio Voltaire, e contraria a quegli stessi diritti umani che intende tutelare. Che si tratti di genocidio degli armeni, degli ebrei, dei Rom e dei Sinti, dei circassi, dei musulmani di Bosnia, nulla cambia.

Contro la censura di Stato

Spiego le ragioni del mio dissenso. La prima è democratica: principio cardine della democrazia è la libertà d’espressione. Una libertà che ha come confine la censura. Questa non è legittima se proviene dallo Stato che è garante delle libertà di tutti e che deve tutelare tutte le “private opinioni” anche se in contrasto con l’opinione cosiddetta “pubblica” che, in ogni caso, non può farsi “opinione ufficiale”. Sarebbe infatti questa una dittatura dell’opinione della maggioranza, inaccettabile in democrazia.  La democrazia è piuttosto la forma di governo che tutela le minoranze che – in quanto tali – sono soggette a pericoli persecutori: minoranze etniche, religiose, sessuali, politiche, e … d’opinione. Poiché il negazionismo è appunto reato d’opinione. Si incarcera chi l’opinione la esprime, per iscritto e pubblicamente, in contrasto con quella che è “l’opinione dello Stato”, quindi sovrana. Ebbene, uno Stato con un proprio regime di “opinioni ufficiali” (verità, dogmi) è uno Stato che scivola nell’autoritarismo.

Il valore di una scuola democratica

Mi si può dire che le masse, instupidite o stupide di natura, siano facile preda dei vaneggiamenti dei negazionisti. Rispondo che uno Stato democratico non deve avere simili timori poiché ha uno strumento ben più efficace della censura: l’istruzione. Una buona scuola rende liberi dalla stupidità, indipendentemente dal grado di scolarizzazione. Ma troppo spesso le moderne democrazie non investono nella scuola. Specie nella scuola democratica, accessibile a tutti (quindi gratuita e pubblica), capace di formare il cittadino.

Censura e autocensura

La democrazia ha certo bisogno di difendersi da sé stessa, o meglio: la libertà deve difendersi da chi ne abusa. Una società realmente libera non dovrebbe aver paura delle parole. Più della censura, a testimoniare il grado di cattività delle nostre opinioni pubbliche, credo sia l’autocensura. I contenuti, anche gravi, vengono espressi nelle nostre società attraverso retoriche definite del “politicamente corretto”. Parole soggette a cosmesi, neutralizzate, che non significano più nulla. Questo perché “certe” parole non si possono più dire mentre i contenuti, pur violenti, continuano a essere espressi attraverso altri termini. Il “politicamente corretto” quindi diventa una trappola, un’arma a doppio taglio: da un lato narcotizza il linguaggio, dall’altro suggestiona, induce, suggerisce. Cosa? Tutto, specialmente la violenza. Soluzione sarebbe un ritorno all’etimologia, al significato stretto delle parole, ma questa digressione porta lontano. Tornando al nostro tema, se sentiamo il bisogno di autocensurarci allora vuol dire che ci misuriamo con una realtà che non è libera ma gravata da interdizioni. Come diceva quel tale? Non condivido la tua opinione ma darei la vita perché tu possa esprimerlo. Retorica? Forse no, forse la libertà d’espressione sta tutta qui.

La sterilizzazione dell’immagine

La censura al negazionismo non mi piace anche perché rischia di mettere sotto una campana di vetro la memoria, né fa “museo” e – per definizione – il museo contiene cose morte, cose che non ci sono più. Quello che Zygmunt Bauman chiama “il processo di sterilizzazione dell’immagine” (cerimonie, giornate della memoria, solenni dichiarazioni, retoriche) porta all’assopimento delle coscienze mentre il pericolo che eventi genocidiari si replichino è presente: incarcerare il negazionismo, senza affrontarlo sul piano analitico e storico, significa diffonderlo. La sottocultura si combatte – credo – con la cultura. Paradossalmente il carcere legittima ciò che si vuole delegittimare.

Crimini contro l’umanità o diritti umani?

Scrive il filosofo francese Secondo Bernard-Henri Lévy “Si crede che i negazionisti esprimano un’opinione: essi perpetuano il crimine. E pretendono d’essere liberi pensatori, apostoli del dubbio e del sospetto, completano l’opera di morte. Occorre una legge contro il negazionismo, perché esso è, nel senso stretto, lo stadio supremo del genocidio”. La legge francese che punisce il negazionismo afferma che è reato “contestare con qualunque mezzo l’esistenza di uno o più crimini contro l’umanità così come sono definiti dall’articolo 6 dell’ordinanza del tribunale militare internazionale, legato all’accordo di Londra dell’8 agosto 1945, commessi sia da membri di un’organizzazione dichiarata criminale in applicazione dell’articolo 9 della stessa ordinanza, o da persona ritenuta colpevole di tale reato da una giurisdizione francese o internazionale” .

Nel giugno 2011 la Commissione Onu per i diritti umani ha pubblicato un commento (n°34) in merito al negazionismo. I “commenti” della Commissione sono interpretazioni giurisprudenziali delle clausole del Trattato su diritti umani (del 1966) e contribuiscono a una sua costante attualizzazione. L’articolo 49 di suddetto “commento” dice: “Le leggi che penalizzano l’espressione di opinioni riguardanti fatti storici sono incompatibili con gli obblighi che il Trattato impone agli Stati riguardo il rispetto per la libertà di opinione e di espressione. Il Trattato non permette generici divieti di espressione di opinioni erronee o interpretazioni incorrette di eventi passati. Nessuna restrizione al diritto di libertà di opinione deve essere mai imposta”.

Negazionismi e revisionismi, combatterli con la cultura

Negare la Shoà degli ebrei, il genocidio armeno, quello dei Rom, quello dei musulmani di Bosnia (per restare solo in ambito europeo) e rileggere, alla luce di interessi politici attuali, il passato comunista nei Paesi dell’est Europa (vedi la “lustracja” polacca) oppure negare l’esistenza dei gulag (come avvenuto dopo il 1991), è certo pratica pericolosa ma uno Stato corre un pericolo ancora maggiore nell’abbracciare “verità ufficiali” e punire chi non si conforma. Fatte le debite proporzioni, anche dire che “dio non esiste” è una forma di negazionismo. Punirla sarebbe, come è stato, limitare la libertà di pensiero e di coscienza. E son cose che una democrazia che vuole chiamarsi tale non si può permettere.

Investire nella conoscenza, nella scuola, nella più ampia diffusione del sapere, nello sviluppo di un sincero spirito critico, nel rispetto dell’altro (quella che si chiama “tolleranza”) sono gli unici antidoti possibili. La prigione è la soluzione di chi ha paura. O di chi, come monsieur Sarkozy, è a caccia di facili voti.

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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3 commenti

  1. Come sempre, ciò che è taboo affascina e attira per il semplice fatto di essere taboo. E poi, non è certo difficile inneggiare alla pulizia etnica indossando eleganti abiti da parlamento e circumnavigando le parole che fanno scattare il reato. Si estremizza e si confonde. Mi sembra di poter vedere nel futuro. è alto il rishio di assistere a episodi del tipo: un giornalista viene arrestato perchè nell’affrontare l’argomento Shoà le sue parole sono “fraintese”, mentre lo stesso politico che lo denuncia continua impunemente a diffondere una cultura di violenza.

  2. Non c’e’ storia senza revisone del passato…

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