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ALBANIA: Come cambia lo skyline di Tirana, metropoli neoliberista

Dopo circa trent’anni di cementificazione selvaggia e di abusi edilizi, la città di Tirana ha un suo piano regolatore. Secondo una pianificazione che dovrebbe completarsi nel 2030, sono previsti interventi di riassetto urbano in cui numerose aree verdi diventeranno protagoniste. A una concezione innovativa dello spazio abitativo si accompagnano alcune riflessioni di carattere socio-politico.

Un bosco verticale a pochi passi dal centro

Una delle soluzioni avveniristiche in programma è rappresentata dal progetto del bosco verticale, già in corso di edificazione in un punto nevralgico della capitale albanese, nei pressi del nuovo Air Albania Stadium e del Parco Maggiore (Parku i Madh).

Il progetto, che sta rapidamente assumendo la sua conformazione definitiva, avrà facciate a vetri ricoperte da alberi, piante e arbusti: un parallelepipedo alto ventuno piani che modificherà sensibilmente lo skyline di Tirana. Il progetto, a cura del prestigioso Studio di architetti associati che fa capo alla figura di Stefano Boeri, mette al centro un innovativo interesse per l’elemento vegetale, integrato nelle strutture portanti e concepito come vera e propria barriera naturale da opporre alle emissioni di anidride carbonica e alle polveri sottili prodotte dal sistema città.

Completano la narrazione dell’intervento la grande attenzione riservata alle biodiversità botaniche selezionate e la creazione di un microclima che renderà l’aria maggiormente respirabile. L’edilizia si ricopre dunque, alla lettera, di verde, e ingentilisce – rendendo anche moralmente accettabile – la sua incessante azione di colonizzazione dell’ambiente.

Simbologie

Il fenomeno dell’integrazione del verde – naturale e allo stesso tempo artificiale – nelle progettazioni urbanistiche contemporanee è speculare in molte parti del mondo. Analoghe soluzioni architettoniche e paesaggistiche ricorrono, con valori immutati, in continenti apparentemente lontani tra loro per storie e culture. Se ne può dare una lettura ottimistica, all’insegna di una accresciuta sensibilità ecologica in grado di accettare la sfida nei confronti di un futuro sostenibile; oppure, altrettanto legittimamente, se ne può contrapporre una analisi rigidamente neo-marxista, per la quale tutto è simbologia del potere.

C’è però un dato di fatto, che va al di là dell’ideologia e che esprime una contraddizione in termini. In questo sforzo di trasformazione, descritto ad uso e consumo dell’uomo, è proprio la presenza umana a diventare comprimaria. Il bosco verticale non è vivibile, perché puro ornamento, posto a diverse decine di metri dal suolo ed esterno all’area abitativa. Ci troviamo cioè di fronte a un concetto diametralmente opposto alla funzionalizzazione moderna e postmoderna che prevedeva la vegetazione urbana come momento di rilancio delle attività collettive.

Quando Le Corbusier ad esempio, in uno dei suoi scritti dedicato alla città del futuro, teorizza nel 1922 la necessità di una riprogrammazione dello spazio antropico, non manca di assegnare alla zona delle piazze alberate un valore anche percentualmente significativo in termini di superficie. Cento anni dopo siamo di fronte a un’idea molto diversa.

La stessa distanza può essere rinvenuta se andiamo a recuperare, come riflette Harvey, uno dei presupposti della simbologia dello spazio postmoderno, in cui lo stanco ripetersi dei motivi dell’edilizia popolare e il dedalo delle vie cementificate vengono interrotti dalla simulazione di spazi chiusi, delimitati da piante ad alto fusto. Queste vere e proprie isole volevano ricreare un percepibile momento di sospensione, separato dalle logiche della città che si espandeva all’esterno.

Nel paradigma architettonico della foresta verticale al contrario viene abortito il momento dell’agorà, in seguito a una frammentazione dell’occupazione dello spazio sempre meno propensa a prevedere l’aggregazione. Anche la storia, con i suoi simboli e le sue dominanti stilistiche, ne esce fortemente ridimensionata. Il recupero di luoghi noti in passato per il loro valore pubblico non rappresenta la priorità e anche quando questo recupero avviene, le modifiche sono talmente numerose da escludere la possibilità di un principio ispiratore realmente conservativo.

Questo complessa evoluzione del rapporto tra uomo ed estetica dell’edificio e dello spazio metropolitano, da almeno duecentocinquanta anni a questa parte, ovvero dagli effetti della prima rivoluzione industriale in poi, è un sedimento di quella ambizione definita genericamente attraverso la parola progresso. È un meccanismo che porta con sé inarrestabili trasformazioni. Prima ancora delle strategie di questa o quella governance politica o prima ancora della volontà di plasmare lo spazio in vista di un rafforzamento del potere – secondo quegli atteggiamenti post-capitalistici che Colin Crouch teorizzava nella sua visione postdemocratica della società –, emerge una celebrazione fine a sé stessa dell’elemento ornamentale. Si tratta per altro di una celebrazione condivisa, quasi collettiva, in seguito alla quale viene riconosciuto un prestigio anche culturale alla rappresentazione simbolica del nuovo.

L’urbanistica del neoliberismo globale

Dietro il presupposto del recupero di un equilibrio maggiormente sostenibile tra spazio urbano e natura c’è dunque l’implicita cancellazione delle eredità storiche e delle peculiarità identitarie di un luogo. Nei progetti di una edilizia neoliberista omologante lo skyline metropolitano contemporaneo assume forme standard, in cui non soltanto il passato non sembra più trovare uno spazio, ma addirittura l’uomo fatica a ricollocarsi in una prospettiva antropocentrica pienamente intesa.

Il perimetro riservato al consumo di esperienze estetiche e vitali è fortemente delimitato, in una concezione rassicurante dell’elemento architettonico secondo la quale il verde è funzionale a una strategia di rappresentazione non tanto (o non soltanto) del potere, quanto della sua necessità. Adottando questo punto di osservazione, ideale e fisico, affacciandosi da una terrazza posta sulla sommità di uno dei tanti grattacieli che sovrastano Tirana, il profilo della città apparirà in molti elementi simile a quello di una qualsiasi metropoli contemporanea. Tirana comincia così ad assomigliare sempre più a Milano (quartiere Isola, Torri De Castillia e Confalonieri); a Parigi (quartiere Villiers sur Marne, Forêt Blanche); e, perché no, a Londra (Hotel The Rubens at the Palace, nella prestigiosa Buckingham Palace Road).

Foto: Tirana/Wikipedia

Chi è Fabio M. Rocchi

Docente presso la Facoltà di Lingue e Letterature Straniere di Tirana, insegna Lingua e Letteratura Italiana. Si occupa in primo luogo della letteratura italofona di area albanese e del romanzo italiano otto-novecentesco.

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