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“La cicala di Belgrado”, riscoprire la capitale serba con Marina Lalovic

 

La cicala di Belgrado

di Marina Lalović

Bottega Errante Edizioni, 2021

pp. 183

 

 

 

 

Se la Jugoslavia è stata una creazione artificiale e una “gabbia dei popoli”, la cosiddetta jugosfera non sarebbe altro che una mera finzione. Il libro La cicala di Belgrado della giornalista Marina Lalovic, edito da Bottega Errante Edizioni, ci racconta però che non è così. La federazione di Tito non esiste più, è vero, ma la realtà delle relazioni tra i suoi popoli le è sopravvissuta a lungo.

Il libro – parte di una collana che la casa editrice udinese dedica alle città – è un insieme di pensieri e racconti autobiografici, ma anche una guida straordinaria di quella che fu la capitale jugoslava e di come essa sia cambiata durante e dopo gli anni Novanta, quando guerre, sanzioni, iperinflazione e nazionalismo ne hanno compromesso il destino. La forza del libro risiede nella semplicità con cui l’autrice trasmette i momenti peggiori della storia di un paese, senza però mai entrare nel dettaglio di bombe, miseria umana e disagio sociale di quegli anni. Ma perlustrando i luoghi dell’anima di un’adolescente che sogna, ha una vita sociale molto attiva, ama la famiglia e il suo quartiere, Čubura.

La cicala di Belgrado parla quindi di trasformazioni, umane e urbane, nonché di viaggi e riscoperte, innanzitutto quelli dell’autrice, che più di vent’anni fa lasciò la “città bianca” per l’Italia, una settimana prima di quel 5 ottobre 2000 in cui un’insurrezione avrebbe mandato il regime di Milošević sui libri di storia.

Lalovic – che oggi è tanto belgradese quanto italiana – racconta la fuoriuscita da un mondo chiuso e incompreso, quello della Serbia degli anni Novanta, e il conseguente approdo nella diaspora balcanica. Il libro offre perciò un parallelo tra la transizione sociale e politica di un paese, e quella umana dell’autrice. Un processo reso meno traumatico dal contatto con la jugosfera dell’Università per Stranieri di Perugia.

“Arrivare in Italia paradossalmente ha significato conoscere il paese dove sono nata, la Jugoslavia. Era la prima volta che incontravo ragazzi di Zagabria, Spalato, Sarajevo, del Kosovo, della Macedonia. La jugosfera era la dimensione che avevo appena scoperto (anche se ancora non la chiamavamo così): uno spazio neutrale dove diverse generazioni di ex jugoslavi potevano incontrarsi, godendo del privilegio della neutralità dell’Italia”.

Lalovic va a vivere all’estero nel momento peggiore in cui rispondere all’apparentemente semplice domanda “di dove sei?”. Perché il suo paese cambia nome tre volte in dieci anni, complicando ulteriormente gli orientamenti geografici dei suoi nuovi concittadini, e anche perché in quegli anni questo veniva sempre associato alle guerre della dissoluzione jugoslava.

Una domanda a cui oggi, forse, le è molto più semplice rispondere: Belgrado. Eppure, il quesito genera un’altra riflessione, quella circa i mutamenti del proprio luogo natale. Scoprire e conoscere le tante cose cambiate; ritrovare e rivalutare ciò che continua a resistere. Ad entrambe le categorie appartengono indistintamente architettura, mentalità, tradizioni e icone urbane, come poeti o kafane storiche. E questo perché i cambiamenti descritti sono di natura trasversale.

Al passaggio da un grande stato federale a una piccola nazione accecata dal nazionalismo si accompagna quello verso una società e un’economia ormai slanciate verso il capitalismo e le sue disuguaglianze. Due processi complementari tra loro – e comuni a tutta l’area jugoslava degli ultimi vent’anni – che vengono ben rappresentati dal progetto megalomane di “Belgrado sull’acqua”: un quartiere oltremodo esclusivo in stile (e sponsorizzato da) Dubai, che sorgerà sul fiume Sava, deturpando la silhouette della capitale serba. “Visto come un ulteriore tassello necessario per la modernizzazione della città, solca ancora di più le due transizioni principali: dall’impero allo stato nazione, dal socialismo al capitalismo”, riassume perfettamente Lalovic.

L’acqua occupa un posto particolare per gli affetti dell’autrice. Belgrado sorge infatti su due fiumi che ne hanno caratterizzato la forma e la storia, senza però che su di essi si siano sviluppate le stesse interazioni sociali che trova in Italia, dove invece si vive un rapporto particolare col mare. Un rapporto che non può che sorprendere chi è nato lontano da esso “dieci ore di macchina”, ed è cresciuto gustando fino all’ultima goccia la settimana al mare garantita dal sistema comunista jugoslavo.

Chi ha vissuto e conosce la capitale serba in La cicala di Belgrado ritroverà, oltre alla sensazione dei racconti di un’amica davanti a una kafa a Čubura, l’anima poliedrica della città; le sue contraddizioni; la resilienza architettonica dei suoi quartieri; quella dimensione locale fatta di interazioni faccia-a-faccia che nessuna “informazione online” potrà mai soprassedere; la convivenza forzata di stili, sia di vita che urbani, pregni di rimpianto e nostalgia con quelli che vanno di moda oggi, ma che hanno il sapore plastico delle illusioni. A chi non la conosce, invece, La cicala di Belgrado offrirà la voglia di scoprire e assaggiare, con una narrazione semplice ma genuina, finalmente priva di cliché e di stereotipi letterari, un luogo che – come i suoi due vecchi, sporchi fiumi – cambia sempre, ma a modo suo rimane sempre se stesso.

Immagine: Bottega Errante Edizioni

Chi è Giorgio Fruscione

Giorgio Fruscione è Research Fellow e publications editor presso ISPI. Ha collaborato con EastWest, Balkan Insight, Il Venerdì di Repubblica, Domani, il Tascabile occupandosi di Balcani, dove ha vissuto per anni lavorando come giornalista freelance. È tra gli autori di “Capire i Balcani occidentali” (Bottega Errante Editore, 2021) e ha firmato due studi, “Pandemic in the Balkans” e “The Balkans. Old, new instabilities”, pubblicati per ISPI. È presidente dell’Associazione Most-East Journal.

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