Il rinvio a giudizio del presidente kosovaro Hashim Thaçi per crimini di guerra e crimini contro l’umanità ha riportato d’attualità il tema della guerra del Kosovo del 1998-99, generando diverse reazioni. Buona parte del mondo albanese si è schierato a difesa di Thaçi e degli altri accusati, bollando le accuse come un attacco alla lotta degli albanesi del Kosovo contro l’oppressione del regime di Slobodan Milošević. In Serbia e tra diversi attori internazionali contrari all’indipendenza del Kosovo, invece, le accuse sono state usate per sostenere che la guerriglia albanese non fosse altro che un gruppo criminale e il seguente intervento della NATO un attacco ingiustificato alla Serbia.
Entrambe le letture sono la riproposizione di una retorica nazionalista che manipola i fatti. Per questo, occorre mettere ordine.
Le accuse all’UÇK
Le accuse a Thaçi si rifanno al periodo della sua militanza nell’Esercito di Liberazione del Kosovo (UÇK). Emanazione di una formazione marxista-leninista, il Movimento Popolare del Kosovo (LPK), l’UÇK iniziò a operare a metà degli anni Novanta in risposta agli abusi del regime di Milošević, con attacchi alla polizia e a serbi e albanesi legati al regime. A fronte delle rappresaglie serbe contro civili e dell’iniziale disinteresse internazionale per la questione del Kosovo, tra il ’97 e il ’99 circa 15-18.000 uomini e donne aderirono all’UÇK, con l’obiettivo di rendere il Kosovo indipendente dal giogo di Belgrado. Per quanto vi fosse un nucleo di comando, l’UÇK non fu mai un esercito gerarchico, ma un insieme di cellule regionali guidate da leader locali. Tra i più rappresentativi vi era il gruppo della Drenica, regione centrale del Kosovo, da cui emerse come leader, più politico che militare, il giovane Thaçi. Proprio per le sue doti politiche, Thaçi fu scelto per rappresentare l’UÇK ai negoziati del ’99, il cui fallimento portò ai bombardamenti NATO su Serbia e Kosovo da marzo a giugno, che si conclusero con il ritiro delle forze serbe dal Kosovo.
Proprio sul gruppo della Drenica si concentra il rapporto prodotto nel 2010 dal procuratore svizzero Dick Marty per il Consiglio d’Europa, base delle recenti accuse. Secondo il rapporto, durante la guerra, nel ’98 e nella prima metà del ’99, questo gruppo avrebbe sviluppato una serie di traffici illegali lungo il confine tra Kosovo e Albania. Ben più grave, secondo il rapporto, ciò che avvenne a conflitto finito: mentre Thaçi si nominava primo ministro di un governo provvisorio, i suoi uomini non solo tollerarono le vendette di alcuni albanesi contro i serbi, ma si resero colpevoli del rapimento di civili serbi, albanesi e rom, portati in Albania e mai ritrovati. Ad alcuni di questi, sarebbero stati prelevati organi da vendere sul mercato internazionale.
Il rapporto non è il primo atto di accusa all’UÇK. Il Tribunale Penale Internazionale per l’ex-Jugoslavia (TPIJ), difatti, ha portato a processo sette membri della guerriglia, condannandone uno, Haradin Bala, a 13 anni per crimini di guerra. Anche dalle corti locali kosovare, non senza fatica, sono arrivate condanne importanti. Restano invece ignoti i responsabili delle uccisioni di circa 1800 civili serbi e di altre etnie durante e dopo il conflitto, e degli omicidi politici del dopoguerra, quando diversi oppositori di Thaçi furono assassinati. Ciò che è certo è che dalla fine della guerra in poi, Thaçi e il suo gruppo, raccolto nella leadership del Partito Democratico del Kosovo (PDK), sono protagonisti assoluti della politica kosovara, tramite una sostanziale cattura dello stato, un’occupazione dei posti di potere fondata su pratiche corruttive e clientelari.
I crimini serbi
Lo stesso rapporto Marty fa una premessa che non va dimenticata. Secondo il rapporto, non vi sono dubbi sui crimini commessi dalle forze serbe in Kosovo a danno della popolazione albanese. Le violenze commesse dalle forze serbe sono state sistematiche, su larga scala e ampiamente documentate.
La repressione iniziata con i licenziamenti degli albanesi dai posti pubblici e continuata con anni di abusi, omicidi, arresti ingiustificati e dispiegamento di forze armate e paramilitari fin dall’inizio degli anni Novanta, diventò a partire dal 1998 un sistema ben collaudato, volto a terrorizzare, con la scusa delle operazioni anti-UÇK, la popolazione albanese: le rappresaglie nei villaggi, con uccisioni ed espulsioni di civili, attirarono l’attenzione della comunità internazionale. Questo piano subì un’impennata con l’inizio dei bombardamenti NATO, che per Milošević furono l’occasione per procedere a una pulizia etnica su larga scala, attuata da forze di polizia, esercito jugoslavo, paramilitari e numerosi civili serbi, armati e mobilitati. Fino alla fine della guerra, fu un susseguirsi di attacchi indiscriminati su villaggi e città, massacri di civili, deportazioni forzate, stupri. In due anni di guerra, oltre 10.000 albanesi, di cui più di 8.000 civili, furono uccisi, mentre in 800.000 si rifugiarono nei paesi vicini.
Questo è quello che raccontano nel dettaglio i report delle organizzazioni internazionali, le analisi di Human Rights Watch, i racconti dei testimoni. E questo è quanto confermato dai processi del TPIJ, che hanno portato a condanne importanti, ricostruendo con precisione i crimini commessi. E così, sei tra militari (come Nebojša Pavković e Vladimir Lazarević) e politici (come Sreten Lukić e Nikola Šainović) coinvolti nelle operazioni hanno ricevuto sentenze che vanno dai 14 ai 22 anni, per crimini di guerra e contro l’umanità, documentati anche nelle carte del processo a Milošević, conclusosi per la morte della dittatore. Altri responsabili sono sotto processo nelle corti locali in Kosovo e in Serbia.
Conclusione
La guerra del Kosovo è stata ampiamente documentata e i tentativi di negare i fatti o di mettere le due parti sullo stesso piano sono da respingere: il regime di Milošević porta su di sè la gran parte delle responsabilità della guerra e dei crimini e le accuse a Thaçi non ne sminuiscono la portata. La Serbia di oggi, guidata da colui che all’epoca era ministro dell’Informazione, deve fare i conti con quel passato, perseguendo gli altri colpevoli, allontanando dalla vita pubblica i condannati rientrati in patria (alcuni dei quali sono invece stati accolti dalle autorità) e collaborando nell’identificazione delle fosse comuni, molte delle quali sono sul territorio serbo, dove il regime trasportò e nascose centinaia di corpi (sono ancora circa 1600, di cui 1100 albanesi, le persone mai ritrovate).
Questo, allo stesso tempo, non può garantire l’immunità per crimini commessi da membri dell’UÇK. I fatti contenuti nel rapporto Marty vanno perseguiti, così come occorre fare chiarezza sulle uccisioni di civili e oppositori politici. In questo, il popolo kosovaro non deve seguire Thaçi nel tentativo di identificare la sua sorte e quella dei suoi uomini con il giudizio sull’intera lotta contro un regime criminale. Pristina deve invece rompere l’attuale tabù, costruito dalla stessa elite al potere, per cui ogni dubbio sulla condotta di membri dell’UÇK viene respinto senza nessuna analisi dei fatti.
Proprio nella consapevolezza delle diverse responsabilità, è necessario che si faccia chiarezza sui crimini commessi da tutte le parti in causa, respingendo prese di posizione nazionaliste, funzionali solo ad una certa leadership e alla sua sopravvivenza politica.
Foto: Balkan Insight