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Da Colombo a Montanelli, di statue abbattute e del perché accade

Le manifestazioni seguite alla morte di George Floyd, l’uomo afroamericano ucciso da un agente di polizia di Minneapolis, negli Stati Uniti, hanno preso una piega originale che sta trovando epigoni anche in Europa: quella dell’abbattere statue. Statue di personaggi variamente implicati nella tratta degli schiavi, sostenitori di politiche colonialiste o razziste. Tuttavia c’è chi vede in questi abbattimenti una furia iconoclasta che, rifiutando il passato, ignora la complessità e offende la memoria. Proviamo a guardare la questione da un altro punto di vista.

A cosa servono le statue

Le statue parlano al presente. Non c’entrano con gli uomini del passato in sé, con il loro pensiero. Riguardano piuttosto un messaggio – politico, identitario, culturale – che una volta impetrato serve a durare nel tempo, a dirci chi siamo o, almeno, a farci dire chi siamo dalle istituzioni che le erigono e le conservano. Abbatterle significa solo che quel messaggio non è più attuale, oppure non serve più a propagandare un’idea di società, di identità, di cultura, utili al nostro tempo.

La geografia degli affetti

Le statue c’entrano più con la memoria che con la storia. E la loro costruzione è finalizzata a codificare una memoria collettiva, un insieme di valori in cui la comunità dovrebbe riconoscersi. Questa è quella che Tuan, celebre geografo sino-americano, ha chiamato la “geografia degli affetti“. Accade però che il meccanismo di riconoscimento tra luogo e comunità vada in crisi nel tempo, producendo frantumi, memorie parziali e differenti a seconda del gruppo sociale cui si appartiene.

La “comunità degli affetti” reagisce a questa frantumazione attraverso l’uso selettivo della memoria che tende a escludere quanto la comunità prevalente non gradisce. La selezione della memoria non riguarda la storia del luogo ma una sua interpretazione nel presente e per il presente, spesso a vantaggio della classe dominante che trova nell’uso selettivo della memoria una fonte di legittimazione.

Perché le statue cambiano significato

Nel saggio “A modern sense of place”, la geografa Doreen Massey trova forse la più efficace chiave interpretativa, oggi condivisa da tutta la comunità accademica. I luoghi sono processi, non sono spazi. Processi in continuo divenire, punti di intersezione di infinite relazioni sociali. Le interazioni sono, per loro natura, mobili, quindi un luogo non è fisso né immutabile. Un luogo è il risultato di molteplici negoziazioni da parte di chi agisce in esso. E le negoziazioni sono mutevoli e possono produrre qualcosa di nuovo in qualsiasi momento.

Ecco perché luoghi simbolici, come le statue, vengono facilmente ri-semantizzate, cambiando significato e perdendo, di fatto, il loro senso originario.

La rielaborazione del passato

Quando il filosofo francese Jean-Francois Lyotard diede alle stampe “La condition postmoderne” (1979) individuò nel peculiare rapporto con la Storia una delle caratteristiche fondamentali dell’epoca che chiamò “post-moderna”. Lyotard sosteneva che una caratteristica del postmodernismo è (piuttosto che una vera rottura) una costante rielaborazione del passato, un passato da cui può venire fuori tutto e il contrario di tutto, impedendo una visione unitaria del mondo. Inutile ricordare che, nell’epoca post-moderna, ci siamo dentro fino al collo.

Alcuni esempi: Cristoforo Colombo

Cristoforo Colombo è ritenuto dai manifestanti americani simbolo dell’oppressione coloniale. Alle orecchie di un europeo questa affermazione può sembrare una bestialità ma negli Stati Uniti, dove si celebra il Columbus Day, la memoria di Colombo è stata cristallizzata in un “santino” facile da demistificare poiché davvero Cristoforo Colombo ha formulato progetti di sfruttamento intensivo del Nuovo Mondo attraverso la schiavitù delle popolazioni locali – anzi, egli stesso fu protagonista di simili azioni.

Naturale quindi il rifiuto di un “santino” che, da simbolo dell’America bianca, è facilmente diventato simbolo del colonialismo e del razzismo.

Quando, nel 2018, si discusse della rimozione della statua di Colombo a New York – ritenuta controversa proprio in quanto ritenuto simbolo del colonialismo – la comunità italoamericana si oppose fermamente rivendicandola come simbolo identitario, a conferma di quel carattere frantumato che hanno assunto i simboli e la Storia in epoca post-moderna.

La statua di Leopoldo II del Belgio

In Belgio si discute da tempo della rimozione dei monumenti a Leopoldo II la cui scandalosa amministrazione del Congo – morirono 10 milioni di persone ridotte alla schiavitù e alla fame –  è universalmente ritenuta uno dei peggiori crimini del XIX secolo. Le manifestazioni americane hanno ravvivato il dibattito. Tuttavia l’unica statua del terribile regnante fin qui rimossa è quella di Anversa, città fiamminga, dove governa la destra xenofoba e anti-monarchica: qui la rimozione della statua non coincide con l’affermazione di uno spirito di tolleranza, ma è strumentale a ledere l’immagine della monarchia avversata dal partito. Un esempio di come rimuovere le statue non sia esercizio privo di trappole.

La farsa di Montanelli

In Italia la protesta è apparsa meno consapevole. Pur non mancando monumenti che meriterebbero, se non la rimozione, un profondo ripensamento, quali ad esempio il mausoleo di Graziani o i molti retaggi toponomastici del fascismo, si è puntato il dito contro la statua di Indro Montanelli, giornalista liberal-conservatore, simbolo dell’identità borghese di Milano e padre nobile di tanto giornalismo nostrano. Un personaggio tuttavia secondario, senza responsabilità politiche dirette (gli si imputano piuttosto comportamenti privati), che fa pensare quanto gli stessi protestatari ignorino la presenza di simboli assai più carichi di significato, facendo apparire la protesta come pretestuosa, farsesca emulazione di quelle americane.

A Torino, non potendola abbattere, si è “sbombolettata” la statua di Vittorio Emanuele II, re d’Italia, pessimo monarca invero, ma sono stati ignorati monumenti di epoca fascista disseminati in tutto il centro storico, simbolo della supremazia razziale degli italiani. A Bolzano, è bene ricordarlo, il Duce va ancora a cavallo davanti al Tribunale. Solo da due anni un’installazione luminosa con le parole di Hannah Arendt ha dato un nuovo significato al monumento che, da sempre, è impossibile rimuovere in quanto simbolo dell’italianità in quella che è una provincia di lingua tedesca. Purtroppo certi simboli non cambiano mai. Forse nemmeno certi popoli.

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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