CINEMA: “La caduta delle foglie”, vita nella Georgia sovietica

“La caduta delle foglie” (1966) di Otar Iosseliani si apre con scene idilliache: una chiesa agreste e la vendemmia nelle campagne georgiane. Le immagini sembrano dare vita ai quadri del realismo socialista: i contadini impegnati a raggiungere le quote del piano quinquennale. Nel frattempo, a Tbilisi, il giovane Niko inizia il suo lavoro di ingegnere controllo qualità in un’azienda vinicola. I volti amichevoli dei colleghi nascondono un imbroglio collettivo che coinvolge anche il direttore della fabbrica. Tutti sanno che il vino della botte 49 è imbevibile, ma nessuno è disposto a ritadarne l’imbottigliamento per non mancare le quote e le tempistiche del piano quinquennale. Niko si troverà presto di fronte a un dilemma: rispettare i propri principi morali, diventare un burocrate ligio agli ordini come l’amico Otar o seguire il modello di vita spensierato di Marina, la collega di cui si è innamorato?

Il film si presta a tante interpretazioni. Offre uno spaccato sui giovani dell’epoca che si affacciavano al mondo del lavoro e alla vita adulta. Disegna anche un quadro del sistema economico sovietico, basato sulla falsificazione collettiva dei dati di produzione di cui tutti i erano consapevoli e, in qualche modo, complici. La vendita sottobanco e il lavoro scadente portato avanti pur di rispettare le quote dei piani quinquennali erano eventi all’ordine del giorno per i cittadini sovietici, come mostrato nell’opera di Iosseliani. “Guarda intorno a te, non è tempo di far valere principi!”, ricorda il capo di Niko in uno dei passaggi del film. Quando il governo centrale ha provato a mettere mano a questa sorta di grande bugia collettiva – la perestrojka – tutto il sistema è irrimediabilmente crollato.

Iosseliani ricorre a un simbolismo non sempre di facile comprensione per un pubblico esterno. Quest’ambiguità è tipica del cinema georgiano dell’epoca sovietica ed è figlia del regime di censura in atto nel paese. Come spiegato dalla regista Nana Djordjadze in un’intervista al New York Times, l’azione di controllo sulle arti nella Georgia sovietica post-staliniana non era rigida come a Mosca e lasciava un piccolo spazio di manovra agli oppositori del regime. Nel cinema, la critica politica esisteva, ma velata dal linguaggio metaforico presente in “La caduta delle foglie” e nelle opere di registi quali Sergo Parajanov, Eldar Shengelaya e Tengiz Abuladze.

Di conseguenza, questi film erano spesso conosciuti e apprezzati all’estero, ma censurati in Unione Sovietica. Lo stesso Iosseliani ricorda come le autorità del Cremlino reagirono a “La caduta delle foglie”. La pellicola venne inizialmente proiettata in un solo cinema a Tbilisi, ebbe un enorme successo, per poi essere vietata per non aver dato un’immagine positiva della Georgia. Ciò nonostante, o proprio per questo, come allude ironicamente il regista, a Mosca l’opera venne apprezzata e si scelse di inviarla al Festival di Cannes, dove venne presentata nel 1968. A Iosseliani, però, non fu concesso di lasciare il paese per assistere alla proiezione, ma il regista si sarebbe comunque trasferito in Francia nel 1984, dopo che altri suoi  film vennero censurati dalle autorità sovietiche.

“La caduta delle foglie” ha ricevuto altre interpretazioni, non strettamente politiche. Alcuni critici hanno indicato come l’opera di Iosseliani metta in contrasto la vita tradizionale e onesta di campagna, mostrata nella scena iniziale, a quella corrotta della città in cui si muove Niko, un richiamo ai compatrioti a non abbandonare la propria cultura. Altri hanno sottolineato la chiave religiosa del film. “Giorgobistve”, il titolo originale, allude a novembre, il mese di San Giorgio, santo protettore della Georgia che, secondo la tradizione, non può mentire. L’immagine del monastero all’inizio e alla fine del film allude, allora, al fatto che si possano ingannare altre persone, ma non Dio.   

Le tante chiavi  con cui è stata interpretata quest’opera mostrano come essa non abbia perso di attualità. “La caduta delle foglie” ha un valore storico in quanto può farci comprendere le dinamiche della vita in Unione Sovietica, qualcosa di ormai lontano da noi. Al contempo, il film ci mette di fronte a dilemmi morali che ci sono molto più vicini.

 

Immagine: Kino Klassika

Chi è Aleksej Tilman

È nato nel 1991 a Milano dove ha studiato relazioni internazionali all'Università statale. Ha vissuto due anni a Tbilisi, lavorando e specializzandosi sulle dinamiche politiche e sociali dell'area caucasica all'Università Ivane Javakhishvili. Parla inglese, russo e conosce basi di georgiano e francese.

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