Il 18 marzo il gruppo di musica romanì macedone Orkestar Veseli Momci stava rientrando in bus in Nord Macedonia dopo una tournée in Austria. Nel convoglio c’erano almeno 200 persone. Eppure, tra tutti, solo i nove membri della band – tutti rom – sono stati fermati dalla polizia macedone e internati in caserma per una quarantena obbligatoria. Un esempio tra i tanti, e magari anche di tono minore, di come la paura del coronavirus si ripercuote sulle comunità più vulnerabili perché già marginalizzate e stigmatizzate, come i rom, anche nei Balcani.
Buona parte della popolazione rom nei Balcani si guadagna da vivere con mestieri informali, come la raccolta e rivendita di metalli e e altri materiali di scarto (come raccontato nel film di Denis Tanovic, An episode in the life of an iron picker), o lavorando – spesso in nero – nell’edilizia. Con le restrizioni in corso, tali impieghi non sono disponibili, e le famiglie si ritrovano senza reddito.
In Albania, i rom hanno protestato in varie città (Elbasan, Korça) perché non avevano più nulla da mangiare. In Kosovo, associazioni e rappresentanti politici dei rom, ashkali ed egizi hanno preso l’iniziativa, istituendo un punto di distribuzione a Fushë Kosovë/Kosovo Polje per cibo e generi di prima necessità, e informando i membri della comunità sul virus e su come prevenire il contagio.
In Serbia, dove vive la più numerosa comunità rom dei Balcani, prepararsi alla quarantena negli insediamenti informali non è facile. “Non abbiamo acqua corrente, né sapone”, denuncia a RFE/RL Jasmina Malićević, che vive con le sue due bimbe nell’insediamento rom “12 febbraio” di Niš. 25,000 persone si trovano nelle sue stesse condizioni.
In Bulgaria, i quartieri rom sono stati isolati in varie località, come a Sliven, con veri e propri checkpoint di ronda che impedivano alla popolazione rom di uscire – misure che non si applicavano invece al resto della popolazione. “Appena un problema in questo paese, suito si dice ‘è colpa dei rom'”, afferma a ReutersGeorgi Borissov, 30enne rom bulgaro, padre di tre figli. L’eurodeputato bulgaro di destra Angel Dzhambazki è stato contestato dopo aver suggerito di “chiudere i ghetti”: “e se fossero il nido del contagio?”, ha affermato. “E perché chiudono solo i nostri quartieri, e non gli altri?” gli ha fatto eco la 60enne Fidanka Kirilova, residente del quartiere rom di Fakulteta, a Sofia.
Le associazioni rom europee hanno scritto alla Commissione europea per chiedere che vigili affinché gli stati membri UE non discriminino contro la comunità rom e contro altre minoranza durante questa crisi. Secondo tali ONG, è imperativo che le comunità più vulnerabili e marginalizzate siano incluse in tutte le politiche pubbliche per la lotta al coronavirus. Favorire l’integrazione sociale dei rom, scrivono, è nell’interesse di tutti.
Come ha dichiarato la Commissaria europea all’eguaglianza Helena Dalli in occasione della giornata internazionale del popolo rom (8 aprile), “questa giornata dovrebbe servire a ricordare che il popolo rom, la minoranza etnica europea più numerosa, ha contribuito alla diversità e alla ricchezza dell’Europa per secoli. L’incitamento all’odio online e la disinformazione contro i rom sono di nuovo in aumento. Molti rom in Europa continuano ad essere vittime di razzismo ed esclusione sociale, nonostante le norme UE e nazionali contro la discriminazione. Stereotipi e pregiudizi persistono. […] Dobbiamo fare di più. La Commissione presenterà una strategia rafforzata per l’uguaglianza e l’inclusione dei rom. In questo momento occorre intensificare gli sforzi per garantire che i rom siano inclusi nella società e abbiano pari accesso a beni e servizi essenziali, garantendo in tal modo la loro protezione contro il contagio. Dobbiamo restare uniti e lavorare insieme. L’unica cosa più contagiosa del virus deve essere la nostra solidarietà.”